Ci sono una prima, una terza, una quinta… e non è una barzelletta.
Lezione in aula magna: i ragazzi di prima prendono posto davanti, alcuni tirano fuori il quaderno per gli appunti, e si mettono ad ascoltare, sebbene i contenuti volino ben al di sopra delle loro attuali conoscenze. Osservo i loro sguardi “spalancati sul mondo come carte assorbenti”, e involontariamente affiora alle labbra una preghiera: Dio salvi questo cuore bambino, questa voglia di esserci, e di capire, questi occhi sgranati.
In terza, nel frattempo, imperversano le assenze: una mattina ne mancano 8, un’altra 14. Basta una verifica, qualche pagina in più, e la fuga diventa la soluzione a portata di mano. Il carico al triennio aumenta, certo, ma a spaventarli non sono appena le parole del libro di chimica o di storia, che suonano estranee e incomprensibili: è la realtà a mostrarsi estranea e incomprensibile. La voglia di vivere si è fatta, crescendo, paura di vivere.
Andiamo ora in aula magna con la quinta: prendono posto dove capita, e al relatore non concedono nemmeno due secondi, hanno già tirato fuori il telefono. L’argomento a loro non interessa, ma neanche il nulla, a quanto pare, li addolora. Prima o poi queste ore dovranno passare. Aspettano la fine, del giorno e dell’anno. Il lunedì 17 assenti, il giovedì 10. Il motivo? Non c’è. Non è neanche l’ansia per la verifica: è che a scuola non vale la pena andarci. La voglia di vivere, che era diventata paura di vivere, ora è stanchezza di vivere.
Cinque anni fa a commuovermi erano i loro occhi spalancati. Oggi forse guarderebbero i primini con cinismo: “vedrete anche voi, ingenui”. La parabola, com’era ampiamente prevedibile, si è rivelata discendente: la scuola in prima è promettente, in terza è noiosa, in quinta è inutile; le parole in prima aprono mondi, in terza sono solo parole, in quinta nemmeno si sentono più. “Questo è quel mondo? questi / i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi / onde cotanto ragionammo insieme?/ Questa la sorte dell’umane genti?”. Crescere significa perdere inesorabilmente la voglia di vivere?
A volte si tocca il fondo. Qualche sabato fa un ragazzo del centro di Bari ha festeggiato diciott’anni. La domenica si è impiccato nella sua cameretta.
Cosa sta succedendo?
Il problema è urgentissimo, ma non se ne parla nelle infinite riunioni dei docenti, né nelle infinite chat dei genitori. Gli adulti ignorano quel vuoto terribile che strappa la luce dagli occhi e non fa alzare dal letto, sono analfabeti dell’interiorità. Col tatto di un elefante in una cristalleria dicono “mangia” a chi non mangia, “studia” a chi non studia, “vieni” a chi non viene, “ama” a chi non ama. Questa la loro brillante pedagogia. Di anno in anno la situazione precipita, ma loro pontificano come una moglie che si ostina a parlare del sacrosanto valore della fedeltà a un marito che la tradisce un giorno sì e l’altro pure.
Almeno qualche coetaneo prenderà sul serio questo nulla che scorre nelle vene? Sembrerebbe di no, se, quando arriva la tanto agognata libertà, si riduce così spesso a dispersione, mondanità, sbroccamenti, amorazzi. L’alternativa a una settimana oppressiva è un’ora d’aria da buttare via, una miseria per i cuori ancora affamati. Gli amici sanno distrarti, farti staccare un po’ la spina, regalarti l’illusione di un’oasi: non sarebbe meglio aiutarsi a combattere?
Con le lacrime agli occhi mi dici che in fisica non ce la fai. Ti propongo: visto che domani si esce prima, chiediamo un’aula e studiamo insieme. Mi rispondi che è impossibile, perché fisica non è per dopodomani, ma per il giorno dopo. L’orizzonte non arriva al dopodomani, figuriamoci al destino. Quando il problema è la sopravvivenza, volersi bene diventa un miraggio.
Ai colloqui con i genitori intanto sfila una processione di professionisti. D’un tratto, fra le scarpe e le borse che certificano lo status borghese, un’ombra di tristezza s’insinua a velare uno sguardo imprevedibilmente inerme. Nel cursus honorum con cui si sono fatti strada nel mondo, ciò che si staglia, in un recesso dell’anima, è un matrimonio sfasciato, un figlio irriconoscibile: non riescono a parlarsi. Li abbraccerei, fratelli nell’irrisolto.
Eppure si continua a spasimare per i risultati, nonostante il cartello inequivocabile: strada senza uscita. Se t’azzardi a condividere con i colleghi gli sbandamenti o i tormenti di qualche ragazzo, il massimo a cui potresti ambire è un “tutti a noi capitano i casi umani”, quando non un “fatti vedere da uno bravo” buttato in faccia al malcapitato.
A parte gli ottusi, l’assedio contempla gli incoscienti che ballano sul Titanic: sono gli insegnanti invasati per le loro fantasmagoriche iniziative (che poi sbattono orgogliosi sui social) e quelli ideologicamente impegnati nella tinteggiatura pastello della selva oscura, compiaciuti del loro bel mattoncino sulla parete del palazzo che crolla.
Crolla il palazzo quando un ragazzo fa il conto alla rovescia per la fine della scuola, quando si risponde che è andata bene perché non si è fatto nulla, quando la si può sfangare tra giustifiche e volontari, quando non si scopre il nesso fra una pagina e se stessi, quando oltre a memorizzare e ripetere non sboccia un’intuizione, una domanda, una lacrima. Chi ci pensa a questa voglia di vivere che se ne va a morire? Per chi, entrando in classe, è in cima alle priorità?
In concreto, bisogna portare a termine il proprio insensato dovere. Il resto è poesia, territorio non giurisdizionale, che le mappe non contemplano né risulta nei registri. A volte qualche piccolo incidente, va bene, in quinta siamo rimasti in 22 mentre dovremmo essere in 35… ma, a parte 13 dispersi, comunque si procede: le interrogazioni ce le si toglie davanti, da entrambi i fronti, le feste non mancano, e nemmeno la gita, e l’anestetico delle serie.
In quest’apocalisse di visioni meschine tu continui a seminare su un terreno sempre più minacciato dall’asfalto, in una lotta ad armi impari. A casa ti porti un dolore che si ribella al deserto e agli occhi spenti. Questa spina nel fianco ti brucia, ma non ti assimila al mondo, non si lascia contaminare dall’assuefazione. Sperando l’insperabile vai a caccia di ginestre nel deserto, di occhi lucidi fra gli occhi spenti, che ti facciano pregare ancora, involontariamente, contro ogni statistica impietosa: Dio salvi questo cuore bambino, questa voglia di esserci, e di capire, questi occhi sgranati. A cominciare dai miei.
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