Nei giorni scorsi sono stati diffusi i risultati delle prove Invalsi per l’anno scolastico 2022-2023. Soliti commenti del giorno dopo e solito silenzio a seguire. Eppure, di cose da dire ce ne sarebbero diverse, oltre alla notazione di fondo: che le tendenze “macro” sembrano costanti e dotate di sostanziale resilienza nel tempo rispetto ad ogni intervento modificativo degli ordinamenti (si veda il caso, drammatico, degli istituti professionali appena riformati).



Ecco, a chi scrive, proprio l’origine di questa resilienza comincia ad apparire come l’aspetto sul quale forse più sarebbe il caso di interrogarsi. Naturalmente, mentre i dati parlano e dicono cose di grande evidenza, la riflessione sui motivi per cui non si riesce a modificarne l’orientamento possono solo essere oggetto di congettura. Le statistiche educative, come la storia, non si scrivono con i “se”.



E tuttavia sarà forse consentita qualche riflessione, non necessariamente corretta sotto il profilo politico, oltre che sotto quello scientifico. Ma almeno fuori dal coro.

1. La prima riguarda quello che è stato chiamato “l’effetto long-Covid”. Per una coincidenza casuale, il passaggio dallo svolgimento cartaceo delle prove a quello tramite computer è intervenuto a partire dal 2019, a ridosso della pandemia. La nuova modalità rende possibile confrontare i livelli di apprendimento da un anno sull’altro, a differenza di quanto accadeva in precedenza. Fino al 2018, tutti i risultati erano convenzionalmente espressi su una scala di 200 punti, valore che indicava la mediana di tutti i risultati di quell’anno (mi scuso con gli specialisti per le eventuali inesattezze di questa descrizione). Quindi, ogni anno, l’asticella rispetto a cui tutti i risultati parziali erano misurati valeva sempre 200, indipendentemente dal suo “contenuto” in termini di apprendimenti e di competenze. Questo – come è evidente – non consentiva reali comparazioni nel tempo, cioè da un anno sull’altro, ma solo all’interno di ciascun anno. Le macro-tendenze erano peraltro le stesse: ma ora sappiamo qualcosa di più.



Il 2019, dunque, ultimo anno pre-Covid, diventa il termine di confronto per quelli successivi. La soglia di riferimento non è più quella convenzionale di 200, ma è, a sua volta, parametrata sui contenuti di quel che, nel 2019, valeva 200. Ebbene, per tutti i livelli scolastici e per tutte le prove (con la parziale eccezione di inglese), si registra un netto tracollo fra il 2019 ed il 2021: un calo la cui entità si dilata al salire dei livelli scolastici, dai 3-5 punti al termine della scuola primaria agli 11-14 al termine della secondaria di secondo grado. E, quel che dà motivo di ulteriore riflessione, i risultati del 2022 e del 2023 sono simili a quelli del 2021. In sostanza, i danni del biennio 2020-2021 non sono stati recuperati nel biennio successivo e sembrano, al momento, destinati a rimanere come un handicap permanente per tutta una generazione di studenti.

Una causa probabile – e non facilmente superabile – di questo fenomeno risiede nel carattere “incrementale” dei programmi di studio: cioè, gli studi ulteriori presuppongono l’avvenuta acquisizione delle conoscenze previste per gli anni precedenti. E quindi, quel che non si è appreso “quando era previsto dal programma”, non si recupera più e mina le fondamenta degli apprendimenti successivi. Forse non si può, di fatto, fare diversamente: e in questo caso occorrerebbe rassegnarsi a un vulnus non curabile che questi ragazzi porteranno con sé.

Se però si volesse provare ad immaginare un insegnamento fondato in misura maggiore sullo sviluppo di nuclei di competenze e non solo sulla stratificazione delle conoscenze, si potrebbe tentare almeno un parziale recupero. Ovviamente, si tratta di un’ipotesi tutta da verificare e la didattica non si fa con i “se”: ma, piuttosto che non fare nulla e rassegnarsi a registrare il danno come non recuperabile…

2. La seconda riflessione è in qualche modo collegata alla prima e si può riassumere in un interrogativo: siamo sicuri che quel che viene immesso nel sistema (gli insegnamenti) e quel che viene misurato (gli apprendimenti) costituiscano oggetti omogenei e confrontabili?

Chi scrive è sempre stato convinto sostenitore dell’impianto delle prove e della serietà scientifica con cui esse vengono costruite, validate, graduate ed infine valutate. E tuttavia riesce difficile sottrarsi ad un dubbio: i quesiti indagano sostanzialmente non il livello degli apprendimenti teorici, quanto la capacità di “elaborarli” e tradurli in atti e scelte della vita quotidiana: quel che si conviene di designare – con qualche margine di indeterminatezza – come “competenze”. Ma le Indicazioni nazionali e le Linee guida emanate negli anni non somigliano ancora piuttosto a delle liste di argomenti e di conoscenze? E, soprattutto, la lettura operativa che di quei documenti fanno per lo più i docenti non accentua forse questo carattere? In definitiva: non sarà che forniamo agli studenti un certo tipo di oggetti e che misuriamo oggetti di tipo diverso?

Certo, si dirà che parte degli studenti si dimostra in grado di operare in modo convincente la transizione dall’uno all’altro genere di “oggetti”, mentre altri vanno in crisi. Ma la domanda resta, anche se può generarne un’altra: non sarà che stiamo misurando con un “metro per ricchi” anche coloro che ricchi non sono, per nascita o per famiglia o per contesto socio-culturale? Certo, alla fine, ogni tipo di valutazione è in qualche modo fatto per graduare le persone in relazione al livello di possesso di certe caratteristiche: ma siamo certi che questa operazione sia equa, cioè che riguardi il grado di acquisizione di beni che sono disponibili per tutti in misura sostanzialmente equivalente? Se fosse vero che la scuola fornisce soprattutto conoscenze, mentre le prove misurano di preferenza competenze, non sarà che stiamo misurando la capacità di approdare a determinati risultati “nonostante” gli input ricevuti e non in forza di essi?

Se questo interrogativo avesse un fondamento, quali conseguenze operative se ne dovrebbero trarre? Cambiare le prove o cambiare l’insegnamento? La prima scelta appare rischiosa, dato che, in quasi tutti i paesi con cui ci confrontiamo sul piano dell’economia della conoscenza, il metro utilizzato è quello che usa anche Invalsi. E quindi, se vogliamo avere un’idea attendibile della nostra idoneità come sistema-Paese a concorrere con gli altri, abbiamo interesse a che l’unità di misura resti quanto più simile possibile. La seconda scelta – cambiare l’insegnamento – può apparire utopica, data l’inerzia del sistema ed i numeri in gioco. Eppure, l’esempio di chi “ce l’ha fatta” (Finlandia prima, poi i Paesi del Sud-Est asiatico) dimostra che la strada è quella: solo che bisogna intraprenderla in una prospettiva generazionale, su un arco temporale di almeno venti anni, senza continue oscillazioni o mutamenti di rotta. E senza continue sanatorie, che di fatto incoraggiano l’immobilismo didattico.

Chi scrive non presume di avere la ricetta assoluta: ma crede, per esperienza ormai lunga, che valga la pena di prendere in seria considerazione le sfide impegnative piuttosto che le vie in discesa.

3. La terza riflessione chiama anch’essa in causa il decisore politico e parte dalla constatazione, di per sé abusata, del divario Nord-Sud. I dati di quest’anno non fanno eccezione: anzi, se mai, danno al fenomeno una dimensione quantitativa particolarmente rilevante. Al termine degli studi superiori, 25 punti percentuali in italiano e 30 in matematica separano gli studenti del Nord-Est e quelli di Sud e Isole quanto al livello di raggiungimento degli obiettivi richiesti dagli ordinamenti nazionali. E questo è il dato medio generale: ché, se si andasse ad approfondire, prendendo in esame gli indirizzi di studio, il divario diventerebbe un abisso; di cui, per pudore (una volta si sarebbe detto “per carità di patria”) si preferisce non dare qui la misura, peraltro agevolmente leggibile nel Rapporto.

Chi legge questi risultati, è portato a ritenere – ed a dichiarare, a cominciare dal ministro – che occorra intervenire sulle scuole del Meridione, fornendo loro più mezzi, e sui docenti, attraverso la formazione. Poi magari, a distanza di solo qualche giorno, si autorizza la firma del nuovo contratto di lavoro della scuola, con cui la formazione viene ulteriormente marginalizzata e di fatto relegata al ruolo di libera scelta individuale. Ma non è di queste incoerenze fra il dichiarato e l’agito che qui interessa occuparsi. Per amare che siano le considerazioni che si potrebbero fare in merito, la questione è un’altra. Ed è che la singola causa probabilmente più determinante nei risultati delle prove è il peso del contesto sociale e culturale.

Ne è ben consapevole lo stesso Invalsi, che da tempo ha inserito nelle proprie rilevazioni una variabile apposita, chiamata Escs (status socio-economico-culturale). Dentro c’è di tutto, dal livello di scolarità dei genitori a quelli di illegalità diffusa. A riprova del fatto che il peso di questi fattori è ben noto ai ricercatori dell’Istituto, è stata anche elaborata una specifica rappresentazione dei dati, nella quale si evidenzia il cosiddetto “effetto scuola”, che viene utilizzato per inferire quale potrebbe essere il risultato finale al netto di quei condizionamenti.

Solo che l’Invalsi è un ente di ricerca e non un decisore politico: e non può quindi dire fuori dai denti che quell’effetto scuola non è solo della scuola, ma di tutto il contesto di cui essa fa parte e nel quale opera. Del resto, per convincersene, basterebbe verificare che molti degli insegnanti che lavorano nelle scuole del Nord-Est e che vi ottengono risultati così brillanti sono di origine meridionale, di prima o di seconda generazione. Il problema non è quindi – o lo è solo in parte – a livello degli operatori: esso si situa a livello del sistema sociale in cui sono inseriti. Giusto per evocare qualcuno dei fattori che incidono sui risultati, basterà ricordare la “pressione sociale” sulla scuola: quella esercitata dalle famiglie e dagli enti locali, in primo luogo, ma poi anche dal sistema delle imprese. Pressione che è il sintomo dell’importanza che in quei contesti ancora viene attribuita ad una istruzione di qualità.

O ancora: l’atteggiamento degli studenti verso la scuola, che è il risultato di quel che sentono in famiglia e di quel che leggono intorno a sé, nel quartiere, nei luoghi di aggregazione giovanile, nella vita di tutti i giorni. In molte aree del Nord, gli studenti migliori sono “opzionati” dalle imprese già prima del diploma; in quelle del Sud, purtroppo, opzioni non meno forti, né meno precoci, vengono esercitate da altre forze presenti sul territorio. Come stupirsi che i ragazzi guardino ai valori espressi da chi di fatto controlla le loro chances di successo nel futuro sociale? E che quindi annettano alla scuola ed all’istruzione un valore marginale, quando non di ostacolo, per i loro progetti di vita?

Chi scrive non vuole sostenere che esista una sorta di condanna irreversibile a carico di alcune regioni: vuole solo attirare l’attenzione sul fatto che diagnosi errate, o parziali, non possono che produrre risultati insoddisfacenti. Se si pensa di agire solo a livello delle singole scuole o del loro personale, si perde di vista che altre variabili significative si trovano al di fuori di quel perimetro.

In sostanza, quel che i risultati Invalsi e la loro costanza nel tempo ci dicono è che il problema non riguarda solo, o tanto, il sistema scolastico, quanto il sistema-Paese. Gli interventi necessari, se vogliono essere efficaci, devono essere sinergici: agire sulle scuole e sui docenti, da un lato, ma sul sistema sociale dall’altro. Povertà diffusa, sistema produttivo, infrastrutture, trasporti, contrasto all’illegalità come modello vincente. E tanto altro ancora. Qualcosa che solo il decisore politico, se veramente ha a cuore la scuola, ha i mezzi per intraprendere e realizzare.

C’est un vaste programme, avrebbe detto il generale De Gaulle: ma occorre darsi le ambizioni e fare le scelte che la dimensione dei problemi richiede. Altrimenti ci ritroveremo qui, anno dopo anno, a ripetere le solite formule, senza che nulla cambi nella realtà dei fatti.

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