Caro direttore,
Le continue notizie che hanno come denominatore comune la fragilità dei giovani mi interrogano molto e credo provochino tutti. Nell’atto di occupazione del Manzoni a Milano è stata ribadita, dopo gli interventi di alcuni studenti universitari nelle inaugurazioni degli anni accademici dei propri atenei, la necessità di una diminuzione della pressione che il sistema di valutazione, indifferente a sensibilità e difficoltà, impone alla vita degli studenti con i conseguenti effetti negativi.
A stretto giro gli studenti del Liceo Berchet di Milano hanno poi diffuso una lettera nella quale sottolineavano una condizione di fragilità quotidiana e strutturale della quale i ragazzi e le ragazze constatano tanto la presenza, quanto una mancanza di sensibilità degli adulti nei confronti di questa condizione, reclamando una dignità della fragilità. Vorrei condividere alcune considerazioni.
Innanzitutto, che una scuola venga occupata, qualsiasi cosa si pensi dello strumento dell’occupazione, con l’intento esplicito e primario di comunicare al mondo una condizione degli studenti è una novità. Eravamo storicamente abituati a occupazioni che servivano a fare “entrare il mondo” dentro le mura scolastiche.
In secondo luogo non è possibile rispondere ai ragazzi che manifestano un disagio con un discorso che suoni anche lontanamente come un “ai miei tempi…”, perché nessun giovane in nessuna epoca lo ha mai accettato. Né quando i genitori potevano “vantare” l’aver affrontato l’emigrazione in condizione di indigenza, né davanti a nonni che potevano opporre a qualsiasi lamentela degli adolescenti di famiglia l’aver vissuto sotto le bombe della guerra mondiale. Non sarà il richiamo a condizioni peggiori a fare cambiare la percezione di sé.
Ma qualcosa comunque non torna ed è che nel discorso pubblico l’assente, spesso il fragile, è l’adulto che si trova quasi a coccolare questa fragilità, assecondandola. Senza scandalo né stigma per condizioni di fragilità che penso ciascuno possa dolorosamente documentare, e che molti di noi si trovano a dover affrontare ed accompagnare, sento la necessità di riscoprire quale sia il compito di proposta che ho, che abbiamo, nei confronti dei giovani che incontro, a partire dai miei figli. La domanda più potente non è dunque cosa ho da opporre alla fragilità, ma cosa ho – personalmente, con mia moglie, con i miei amici – da proporre. Cosa c’è di ancora più grande della fragilità? O meglio: c’è qualcosa che possa potentemente entrare in risonanza con i desideri dei nostri adolescenti e giovani (magari ancora nascosti a loro stessi) al punto, questo sì, di dare alla fragilità la dignità di nostalgia di cose grandi cui la vita è chiamata?
Il rischio di una proposta, una vita “messa davanti”, offerta agli occhi per essere condivisa e vagliata, anche esposta a domande, obiezioni, rifiuti o sorprendenti sussulti dei ragazzi, con i quali prepararsi a coinvolgersi dando tempo e spazio. Perché nemmeno si può chiedere a chi è impantanato di tirarsi fuori dalla sua situazione in totale autonomia, come un novello Barone di Münchhausen.
Ed è sempre più chiara la necessità di aiutarsi tra adulti a vivere questo compito, andando a fondo delle ragioni che animano le nostre vite, trovando modi nuovi per fare fronte alle sfide che ci si parano davanti. È un tempo drammatico e formidabile, un’occasione da non perdere.
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