La lingua italiana è in via di estinzione? Certamente lo sono i parlanti nativi, dato che il nostro Paese soffre di un calo demografico preoccupante. Secondo i dati del ministero dell’Istruzione e del Merito, in questo anno scolastico appena avviato, il 2024-2025, le scuole italiane hanno perso 110mila studenti, portando il totale a poco più di 7 milioni: non si rimane sorpresi dalla crisi, ma dalla sua accelerazione: in dieci anni, dal 2013 al 2023, sui banchi sono mancati all’appello quasi 700mila alunni, con una riduzione dell’ 1,52% solo nell’ultimo anno. E allora? Abbiamo già affrontato, su queste pagine, la proposta dello ius scholae. Lo stesso Antonio Tajani, ministro degli Esteri, il mese scorso ha proposto l’istituzione della Giornata dedicata all’italofonia per valorizzare quanti parlano la nostra lingua nel mondo, in occasione del suo intervento all’84esimo Congresso della Società Dante Alighieri.



In realtà, bisognerebbe guardarsi in casa e lavare i panni sporchi, per così dire, secondo il noto adagio. Lo studio internazionale Ocse-Pisa rileva ogni tre anni le competenze dei quindicenni in lettura, matematica e scienze. Nei dati disponibili (2022) relativi a quasi 700mila studenti di 81 Paesi, l’Italia è stata rappresentata da un campione di 10.552 studenti provenienti da 345 scuole selezionate. Tale campione è rappresentativo di una popolazione di circa mezzo milione di quindicenni. Nella Lettura gli studenti italiani hanno ottenuto un punteggio medio di 482 punti, superiore alla media Ocse che si attesta a 476 punti. Insomma, in Italia il 79% degli allievi raggiunge almeno il Livello 2 in Lettura, raggiunge cioè il livello minimo di competenze. A livello internazionale la percentuale è del 74%. Un dato su cui riflettere: sono le regioni del Mezzogiorno a mostrare la quota più alta di studenti con competenze alfabetiche inadeguate (Calabria 53,2%, Campania 49%, Sicilia e Sardegna al 48,7%), mentre anche territori del Nord mostrano divari molto alti (Liguria 47,1%, la provincia autonoma di Bolzano 44,9%).



Certamente i dati numerici aiutano a quantificare il problema, che non è solo di natura didattica, ma anche politica, visto che serve la volontà di porre mano a questa situazione con provvedimenti normativi specifici e finanziamenti congrui. E cosa si dovrebbe fare? Semplice: ripristinare un’ora in più di lingua e letteratura italiana, tolta dal monte ore settimanale di ogni scuola della Repubblica dalla riforma Gelmini nel 2011. Nell’ora “aggiunta” dovrebbe essere contemplata ope legis, in modo chiaro, una serie di interventi sullo sviluppo delle competenze di base della lingua italiana come la comprensione del testo e della produzione scritta. Migliorare le competenze della lingua italiana di chi sarà cittadino e cittadina del domani, al di là della legge vigente, permetterà di ragionare e riflettere meglio con senso più critico rispetto alle complessità del mondo di oggi: dovrebbe essere una priorità in una democrazia matura!



In un saggio di Gustavo Zagrebelsky, Sulla lingua del tempo presente (Einaudi, 2010), vengono poste alcune questioni che, ancora oggi, sono attuali, se ricondotte alla lettura, interpretazione e analisi dei dati ufficiali di Invalsi o di Ocse, o più empiricamente, delle geremiadi di tanti docenti di lettere in tutto lo Stivale, che vivono in prima linea, con i giovani: se un certo uso della lingua nostrae aetatis rivela un modus operandi sistematico da parte del “potere politico” e del “potere economico” al fine di aumentare e consolidare l’esercizio della persuasione, in buona sostanza al fine di operare una metamorfosi ovidiana, ovvero dei cittadini in adepti-followers omologati, qual è il valore “democratico” della lingua italiana?

“Quello che importa – scrive Zagrebelsky – è che effettivamente noi non solo pensiamo in una lingua ma la lingua ‘pensa con noi’ o, per essere ancora più espliciti, ‘per noi’. Nelle dittature ideologiche, la lingua è un formidabile strumento di propaganda e, con riguardo a tale uso, è stata studiata (…). C’è però una non trascurabile differenza, a seconda che queste prestazioni della lingua siano gestite centralmente e con autorità da una qualche burocrazia linguistica, visibile o invisibile, oppure, al contrario, siano lasciate allo sviluppo diffuso e spontaneo dell’uso che quotidianamente ne viene fatto. La lingua, nel primo caso, può essere dotazione del potere, che se ne avvale per rendere omogenee le coscienze e governarle massificandole; nel secondo, può essere strumento di coscienze che elaborano forme comunicative di resistenza all’omologazione”.

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