A più di un anno dallo scoppio della pandemia da Covid-19 il vocabolario italiano, e non solo, si è arricchito di neologismi di matrice anglosassone o è stato soggetto a revisione semantica di voci tradizionali che, alla luce dell’emergenza attuale, hanno assunto nuovi significati.
Lockdown, smart working, contract tracing, droplet, sono citati sempre più di frequente, al pari di termini dal carattere strettamente scientifico; anticorpi monoclonali, antigene, test immunoenzimatico e altre espressioni della scienza medica hanno raggiunto un pubblico molto più ampio rispetto ai soli lettori di riviste del settore, grazie anche all’assidua presenza sui social e in televisione dei virologi.
In questo nuovo glossario, insieme a Dpcm, la sigla probabilmente più utilizzata dalle famiglie italiane di ogni estrazione sociale è Dad, didattica a distanza. Dalla prima fase pandemica del 2020 sempre più studenti hanno maturato una certa familiarità con questa sigla, sperimentando le diverse tipologie di didattica digitale: didattica digitale integrata (Ddi), che comprende un avvicendamento tra lezioni in presenza e a distanza nel corso delle settimane del calendario scolastico; videoregistrazioni, in cui il docente registra la lezione mentre gli studenti sono in ascolto telematico, per poi caricarla su un drive e fornir loro ulteriori agevolazioni nello studio; videoconferenze, la modalità più diffusa, perché ripropone in salsa digitale un ipotetico rapporto frontale di classe tra docenti e studenti.
In un periodo in cui per molti risulta poco cauta la frequentazione di ambienti condivisi, come mezzi di trasporto o ambienti scolastici, la Dad è da considerarsi come un’opportunità fornita dall’era della digitalizzazione e, al pari di qualsiasi altro mezzo di comunicazione telematico, collega persone distanti chilometri con la semplicità di un click o di un mouse. Inoltre, a raccogliere la sfida della risoluzione del problema della frequenza scolastica in epoca di pandemia è stata l’industria digitale, che ha conosciuto un aumento esponenziale degli occupati e dei fatturati, accelerando il trend positivo raggiunto negli ultimi anni. I colossi ormai storici dell’informatica hanno incrementato i servizi forniti per aggiudicarsi fette di mercato in tutto il globo, mediante piattaforme dedicate o con vecchi programmi di smart working aggiornati all’occorrenza.
Oggi, dunque, dopo un anno di pandemia il rapporto tra scuola e informatica è sempre più forte. I picchi di didattica a distanza sono stati raggiunti nella prima fase pandemica e agli inizi della primavera 2021, assumendo una forma sempre più eterogenea, specie dopo il varo del sistema a cartina geografica multicolore, differenziata in base al grado di pericolosità della circolazione del virus su scala regionale.
Nei mesi di marzo e aprile di quest’anno l’applicazione della Dad sul territorio nazionale ha presentato un’accentuata differenziazione per macro-aree: al Nord il 95% degli studenti ha usufruito delle lezioni da remoto, al Centro circa il 77% e al Sud il 64%, per un totale di 6,9 milioni di studenti delle scuole primarie e secondarie. Dall’altro lato della cattedra, hanno fornito regolare servizio circa 362mila docenti, dei quali 75mila con contratti a tempo determinato. Questa discrepanza tra aree nazionali è dovuta a diversi fattori; se da un lato la permanenza di regioni molto popolate del Nord in zona rossa ha contribuito alla formazione di questi dati poco livellati, dall’altro in alcune zone dell’Appennino meridionale la didattica a distanza è risultata insufficiente per problemi infrastrutturali.
I dati si capovolgono se si considera la regione di provenienza dei docenti mobilitati per la Dad. Ciò è dovuto alla presenza sempre più consistente di professori provenienti dalle regioni del Centro-Sud nelle scuole del Nord Italia. Dagli ultimi dati distribuiti dal ministero, si deduce che soltanto il 55% dei docenti meridionali riesce a ottenere nel corso della propria carriera un trasferimento stabile nelle regioni d’origine, mentre la restante parte è costretta a emigrare alla ricerca di una cattedra. Considerando questi numeri si evince che nel corso dell’ultimo anno un’altissima percentuale di docenti meridionali ha svolto il proprio servizio con didattica digitale, dinanzi al proprio server, nell’appartamento preso in affitto nei pressi del luogo di lavoro.
Le domande sorgono spontanee: perché non sfruttare le potenzialità di smart working/Dad anche per la scuola, in modo da caratterizzare, in piena era digitale, un miglioramento della qualità della vita dei professori emigrati? In un contesto internazionale, in cui le distanze vengono abbattute dai social media, dalle piattaforme professionali e dagli imprenditori del terziario che hanno scoperto i vantaggi dello smart working, perché non utilizzare questa opportunità per iniziare un nuovo percorso di riavvicinamento economico tra aree differenti dello stesso paese? Perché non destinare parte dei fondi in arrivo dall’Europa per migliorare le infrastrutture digitali, rendendo attiva parte della cittadinanza che, a oggi, risulta ancora esclusa dai grandi flussi dei dati informatici a causa di reti informatiche instabili?
Le università del Sud Italia formano ogni anno migliaia di docenti che saranno costretti a recarsi in altre regioni del Centro-Nord, se non all’estero, per svolgere il lavoro per il quale hanno investito la risorsa più preziosa per ogni essere umano, il tempo. I fondi pubblici destinati alla formazione dei giovani meridionali, dunque, non hanno un ritorno economico sul loro territorio d’origine; i docenti emigrati andranno a risiedere in abitazioni vicine alla scuola di assegnazione, frequenteranno esercizi commerciali, luoghi di intrattenimento, cinema e ristoranti del luogo. Il giro economico, in sintesi, riguarda esclusivamente le zone più appetibili dal punto di vista professionale e dà vita a nuovi posti di lavoro, innalzando anche le entrate fiscali degli enti locali, che si trasformano in maggiori servizi forniti alla collettività.
Questa massa di consumi, se trasferita in aree in difficoltà da decenni, potrebbe aiutare la ripresa: ritornando nel Mezzogiorno, un professionista dell’istruzione aiuterebbe a stimolare una ricrescita sia culturale che economica della sua terra d’origine, con i suoi consumi e con la sua preparazione, sostenendo indirettamente quei territori soggetti negli ultimi decenni a desertificazione industriale e demografica. In tal modo anche l’osso, descritto da Rossi Doria come simbolo delle aree interne del Mezzogiorno, potrebbe rimpolparsi; in più, a beneficiarne sarebbe la scuola stessa, poiché si andrebbe a inserire negli organici scolastici personale maggiormente motivato, che gode del frutto del suo lavoro senza ulteriori decurtazioni dovute all’elevato costo della vita degli ambienti cittadini.
Se è indubbia l’importanza della lezione frontale, ed è sempre più richiesto il ritorno alla normale partecipazione degli studenti, ciò non impedisce un perfezionamento della digitalizzazione dell’istruzione, abbinando presenza degli alunni e smart working degli insegnanti lontani dai loro luoghi d’origine: è un’occasione da sfruttare, poiché non implicherebbe risvolti negativi sul grado di apprendimento scolastico, né alcuna compromissione della regolare crescita psichica degli alunni, che hanno già vissuto un’esperienza alquanto traumatica nel periodo più duro del lockdown.
Parte dell’iniziativa deve essere assunta dagli enti locali del Mezzogiorno, ovvero i primi beneficiari di un recupero delle migliori forze giovanili, impegnando risorse per la ristrutturazione delle infrastrutture, in modo da attrarre anche nuovi investimenti per le zone che presentano maggiori problematiche; questa politica di sostegno per il Meridione deve essere inserita nelle agende governative, abbinando due neologismi, Dad e smart working, per riprendere parte di quel percorso tracciato con la stagione dell’intervento straordinario, ma non portato a termine.
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