Caro direttore,
sono psicoterapeuta dell’età evolutiva e devo lo spunto iniziale, per le osservazioni che seguono, alla necessità di spiegare ai miei pazienti adolescenti perché fosse opportuno riprendere i nostri incontri in presenza, al termine del lockdown dello scorso anno. Un importante contributo teorico mi è stato fornito successivamente dagli interventi di Vittorio Gallese e Giuseppe Riva in un recente webinar dell’Ordine degli psicologi della Lombardia dal titolo: “Quant’è reale il virtuale?”.
Per gli adolescenti mantenere i contatti interpersonali attraverso il web è molto più naturale che per gli adulti, ma questa modalità, oltre ad avere innegabili vantaggi, può colludere con la volontà, più o meno consapevole, di interporre un filtro tra sé e l’altro, fino a crearsi un’identità fasulla e a favorire il proprio ritiro sociale.
Che cosa, ad una semplice osservazione dei fenomeni, distingue la relazione tra le persone attraverso uno schermo da quella in presenza?
È vero che il sistema cerebrale dei neuroni specchio, alla base del nostro “comprendere dall’interno” le intenzioni e le emozioni degli altri (la famosa empatia), viene attivato dalla visione di un’azione altrui, sia che essa sia osservata dal vero, sia attraverso un monitor; tuttavia uno studio giapponese, che ho sentito citare da Giacomo Rizzolatti, ha dimostrato un gradiente di attivazione di tale sistema neuronale, che decresce a seconda che una scena sia vista in teatro, al cinema, o sullo schermo di un computer o di un televisore.
Inoltre occorre considerare come lo spazio virtuale differisca dallo spazio fisico, perché nel primo non vengono attivati i neuroni cerebrali, chiamati Gps, che hanno valso il premio Nobel per la medicina nel 2014 agli scienziati J. O’Keefe, M.B. Moser ed E. Moser; queste cellule nervose contribuiscono alla nostra memoria autobiografica e al nostro senso di identità, in quanto ci informano in quale posizione ci troviamo, se siamo in un luogo aperto o chiuso, e se altri condividono con noi lo stesso spazio.
Quanto esposto conferma come il nostro corpo venga globalmente coinvolto nel mettersi in relazione con l’altro.
Ma c’è un altro aspetto della comunicazione interpersonale, forse più sottile ed intimo, riguardante la percezione visiva della mimica facciale e gestuale e la percezione acustica della voce dell’altro. Attraverso la connessione digitale esiste sempre un ritardo, per quanto minimo, tra la trasmissione e la ricezione del segnale, quindi tra le espressioni mimiche, i gesti e l’emissione della voce di chi parla, e la relativa percezione da parte dell’interlocutore. Normalmente una conversazione comporta un preciso alternarsi di tempi parlati, di pause e di tempi di ascolto dell’altro, accompagnati dalla mimica e dalla gestualità, cioè dalla non meno importante comunicazione extra-verbale.
Questi ritmi, che sono stati studiati dall’Infant Research, e che Daniel Stern, uno dei più importanti studiosi, paragona ad una danza, vengono appresi molto precocemente nei primi scambi non verbali tra la madre ed il neonato, e sono alla base di tutta la successiva comunicazione verbale.
Sappiamo quanto possa essere faticoso adattarsi ad un alterato ritmo della conversazione attraverso il mezzo digitale, e quanto sia critico trovare l’esatto momento per iniziare a parlare o a rispondere, per evitare di sovrapporsi al discorso altrui; a volte, perdendo l’attimo giusto, si rinuncia persino a dire quanto si sarebbe voluto esprimere.
Perciò c’è da domandarsi quale impatto profondo un’asincronia, imposta artificialmente dal mezzo di comunicazione, possa avere sull’autenticità e sull’integrità emotiva della comunicazione stessa. Non intendo sostenere che la dimensione emotiva dello scambio interpersonale venga annullata dalla comunicazione mediata, ma che essa ne venga in qualche misura limitata e distorta, lasciando la sensazione che “manchi qualcosa” e suscitando il desiderio di incontrarsi nel mondo reale (sì, lo so, anche il mondo virtuale è reale, ma esclude la dimensione fisica del corpo, perciò non è globale).
Si potrebbe obbiettare che questo bisogno appartenga alle generazioni precedenti, ma non a quella dei nativi digitali: o piuttosto anche in loro esiste, ma rimane inconsapevole?
Infine, non posso tralasciare una caratteristica tipicamente umana della comunicazione: l’incontro degli sguardi. Esso non può avvenire in modo diretto attraverso lo schermo del computer, perché quello che vediamo è lo sguardo dell’altro che ci guarda sul monitor.
Per ora mancano studi neurofisiologici sull’attivazione del sistema dei neuroni specchio, e sulla corrispettiva relazione interpersonale empatica, riguardanti questo aspetto della socialità umana; ma in attesa che le neuroscienze se ne occupino, possiamo fidarci delle intuizioni e dell’esperienza clinica degli psicoterapeuti dell’età evolutiva, primo fra tutti il pediatra e psicanalista inglese Donald Winnicott, che parla di “rispecchiamento” del bambino nello sguardo della madre, come base per la costruzione del suo senso di esistere e quindi della sua identità.
Senza contare che anche la nostra comune esperienza di vita ci testimonia come nell’incontro di uno sguardo, per quanto istantaneo, spesso sia contenuta più verità e profondità emotiva che in molti discorsi.
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