Venni in possesso dei primi euro qualche minuto dopo la mezzanotte del primo gennaio 2001, ritirando la nuova moneta al bancomat dell’Ufficio postale. Le Poste Italiane invitarono i propri correntisti a rifornirsi di euro e con il primo aereo ero a Parigi, per andare con mia moglie a trovare i nostri due figli che giusto allora, si erano ricongiunti in Francia a lavorare.
All’aeroporto ci recammo, come sempre, a comprare, giornali e riviste, non utilizzando il pocket money dei franchi, ma i primissimi euro italiani, ben accetti dall’ormai nota venditrice dei giornali, per la quale l’Italia era il paese prediletto, tanto che un giorno lo avrebbe visitato. Con lei e gli altri clienti ci sentimmo quasi dei personaggi della serie “c’ero anch’io”, ripresi nei cortometraggi di grandi eventi epocali, insieme agli altri clienti francesi e stranieri. Incuriositi e compiaciuti, ma tutti senza regìa, improvvisammo un quadro di spontaneo trionfalismo europeo generale, forse un po’ eccessivo. Scambiammo monete cartacee ottenendo le nuove monete metalliche, sonanti e lucide, stavolta emesse dalla Banca di Francia. Alcune furono un ulteriore regalo, inaspettato dai miei figli.
Ripassando ciò che era successo dal giornalaio dell’aeroporto, le osservazioni dei miei ragazzi, furono solo umoristiche. L’improvvisata allegria, secondo loro, andava conclusa gridando “viva l’Europa” e “viva l’euro”, ma anche con l’inno europeo, difficilmente, in Francia non accoppiato all’inno nazionale, e, in questo caso, associato, perché no, all’inno italiano, con stappo di bottiglia di spumante e champagne. Essi avrebbero aggiunto questo codicillo, condiviso pienamente dal primogenito che, non era presente in Francia, ma che subito fu coinvolto telefonicamente per partecipare allo spettacolo della presa in giro. Anche lui aveva fatto studi universitari fruendo del programma Erasmus.
Essi, partiti italiani, già durante gli studi si sono ritenuti europei e tutti e tre “certi” che “non ci può essere laurea senza Erasmus”, che si sentivano “figli” anche di Sofia Corradi, la “signora dell’Erasmus”, l’“inventrice del programma culturale della storia del continente”. Dal 1987 – siamo a tredici anni prima dell’introduzione della moneta unica – ella portò oltre confine dieci milioni di persone. La Corradi come una trottola girava l’Italia per aiutare le Università a cucire il contatto con l’Europa. Ne sentirono parlare i miei tre figli che studiarono a Milano dall’Ufficio Erasmus della loro Università. Ella “catechizzava” i componenti delle Conferenze dei Presidi delle varie Facoltà, la Conferenza dei Rettori (Crui) nelle varie riunioni del Comitato Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario (Cnvsu) poi del Cun spuntava non so come al Ministero in ogni occasione in cui andai. Ella operò anche con Progetti pilota. “Il primo risultato concreto lo incassai nel 1976, – siamo a ventiquattro anni prima dell’introduzione della moneta unica – quando la Commissione Europea diede luce verde a un progetto pilota che di fatto spianava la strada all’’Erasmus».
Orsola Riva, l’intervistatrice del Settimanale 7, accenna al fatto che “per undici anni – tanto durarono i cosiddetti Programmi comuni di studio – Bruxelles finanziò più di 500 accordi universitari che, consentivano, a un primo gruppo di giovani di trascorrere un periodo all’estero. Un modo per incentivare la mobilità studentesca all’interno dello spazio comune europeo, senza che fosse necessario chiamare le cose col loro nome. E proprio la visionarietà e la perseveranza di Sofia Corradi sono state ricompensate e il 15 giugno 1987, 18 anni dopo il suo primo memorandum, – e tredici anni prima dell’introduzione della moneta unica europea – il Consiglio europeo – grazie anche al lavoro svolto da un altro italiano, Domenico Lenarduzzi, da poco scomparso – ha adottato l’European Scheme for the Mobility of University Students, cioè l’Erasmus. Un piano di mobilità studentesca che in quasi 35 anni ha fatto fare le valigie a dieci milioni di persone principalmente universitari, ma anche giovani apprendisti, docenti e alunni delle superiori”.
Oggi siamo arrivati alla generazione degli Erasmini, i figli delle coppie che si sono incontrati grazie a questi scambi. Si contano in un milione le siffatte famiglie europee, e non sono poche. Questa mobilità di persone, giovani e non, basata sulla crescita rapida ed elevata di capitale umano non è iniziata nel ventennio che ci separa dall’introduzione dell’euro, ma è cominciata ad essere effettiva per i popoli dell’Europa molto tempo prima, insomma quando i giovani hanno iniziato a viaggiare per il continente grazie all’Erasmus, aggiungendosi alle vecchie correnti migratorie, per così dire dei lavoratori italiani non istruiti.
Ricordo la più volte condivisa possibilità evocata da Enrico Giovannini che si potesse andare decenni prima “oltre il Pil”, anticipando la messa in gioco della più condivisibile “sostenibilità” per produrre effetti diversi da quelli registrati sia in campo economico, sia nel più abbisognevole campo sociale. Il percorso del cambio degli indicatori e delle statistiche di riferimento, che ha portato alla nascita di un vero e proprio nuovo “credo”, di cui dobbiamo essere portatori, lo dimostra. Alla stessa maniera, mi sento di affermare che alla crescita qualificata del valore del capitale umano della popolazione europea, si possa riconoscere una data di inizio quale “creazione dell’Europa del capitale umano” precedente al 2001, anticipando, quasi senza accorgercene, un’altra tappa più evidente, addirittura epocale, proprio come l’adozione di una moneta comune, necessaria per realizzare un’Europa economica e finanziaria.
Va detto, però, che è stato opportuno che ciò avvenisse, dovendo salire, all’epoca, lo scalino a tutti i costi che porta all’Europa, pur in assenza di una Costituzione e di un modello che potesse tradursi in una circostanza viva e vitale per creare gli “europei” tout court (il cui modello aggregativo ruota, a mio avviso, intorno al concetto di armonizzazione, che lascia quanto più possibile le diversità, assicurando che le comparazioni siano possibili) così come quando consideriamo, da tantissimi anni, gli “americani” senza specificare lo Stato di appartenenza (il cui modello aggregativo ruota, a mio avviso, intorno al concetto di standardizzazione, che assicura al massimo le comparazioni lasciando al minimo indispensabile le diversità). Al centro della creazione dell’Europa, c’è stato il contributo comune dei Paesi alla crescita del capitale umano “conferito” (termine forse poco felice) dai singoli Paesi all’Europa. Uno o più altri Stati, verso i quali questi “aspiranti(?) europei” si sono diretti hanno contribuito con la formazione e/o con il lavoro. Un patto che deve esplicitare quello sottostante, implicito, che da anni è realizzato, atto a condensare una visione in cui, sia la formazione, sia il lavoro, si combinino in una logica di formazione permanente e ricorrente. Ciò, per effetto sia degli apporti dei vari e diversi sistemi formativi europei, sia, congiuntamente o disgiuntamente, dalla componente di crescita del capitale umano che deriva dall’avere esperienza lavorativa in uno, o addirittura più vari e diversi sistemi produttivi, dei Paesi.
Questa combinazione è la sola che può spostare indietro nel tempo, di fatto, la creazione dell’Europa e festeggiarla, oggi superando l’anniversario della nascita dell’euro di qualche decennio. I giovani si sentirebbero più artefici dell’Europa, rispetto al caso del semplice festeggiamento del suggello della creazione dell’Europa finanziaria.
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