Ma ti pare questo il tempo di parlare di poesia? Qualcuno l’ha detto forte e chiaro al mio amico Giuseppe: c’è poco da andare a prendere belle parole, c’è poco da girarci intorno. Qui stiamo dentro un mare scuro e tempestoso. Ecco, bravo, gli ha risposto il mio vecchio professore: e tu cosa hai fatto adesso che mi descrivi quello che hai intorno come un mare scuro e tempestoso? Una frustissima metafora, certo, ma sempre abbastanza efficace per dirci dove siamo e come ci troviamo, no? Hai fatto la tua poesia, gli dice Giuseppe.



E allora perché non prenderne una vera, una grande, una che ci mette in bocca tutte le parole da dire una a una? Non so: vuoi mettere cosa potrebbe suggerire Montale a questi miei ragazzi di 14 anni perduti nella nebbia della scuola a distanza? Me l’aveva già raccontato che, quasi in maniera inspiegabile, lui con la scuola a distanza non litigava più: altro che tempo e scuola sospesa, diceva, di scuola sorpresa ed appesa bisogna parlare.



Appesa a che cosa? Alle cose che contano. Mica schede prestampate con risposta multipla o secca come succedeva con la scuola del 2157 nel racconto di Asimov Chissà come si divertivano che lui ha fatto leggere ai suoi alunni nei giorni scorsi; mica verifiche in presenza perché “se no come fai a sapere che le hanno fatte loro”; mica esercizi a valanga per riempire i buchi della pancia e del cuore.

Ci vuole altro per quelli, ci vuole la poesia, dice Giuseppe. E così si prende tutto il tempo, perché, come diceva Lauretano in un suo articolo qualche tempo fa proprio qui, la scuola a distanza non è solo una questione di spazio, ma è soprattutto una questione di tempo. Riempito e dilatato, appeso, appunto, a ciò che è in grado di riempirlo davvero. La poesia di Montale, allora, diventa compagna ideale.



In una terza media? Con neanche l’esame da fare? Ti metti ostinato a fare il programma di storia della letteratura? Ma va’: mica di storia si tratta. Di storie: esperienze di paure e di limiti che vengono fuori, di dolori e sconfitte, di solitudine e smarrimenti e persino di speranze nascoste e segrete. Dei ragazzi, grazie a Montale, o a Ungaretti. Il tempo allora si prende per quello che è: un’occasione da mettere a frutto, senza rincorrere niente che non sia la comprensione più grande di quello che accade a me e agli alunni, dice Giuseppe.

E allora, visto che intanto ci siamo studiati anche la seconda guerra mondiale, facciamo così: partiamo da Spesso il male di vivere, che in tre immagini più tre dice più di cento documentari. Il male è la fine, la corsa interrotta, la vita rinsecchita.

E poi cosa proponi, l’indifferenza di Eugenio a questi bambini che devono imparare il mondo, caro Giuseppe? Ma va’. Eugenio, il Montale, non si ferma mica lì. Ne ha anche di più dure di parole disperate: prendiamo – ma dopo una settimana, dopo che abbiamo trovato anche il modo di scegliere anche noi ragazzi un’immagine che dice la fine e il dolore, magari di stamparla e tenerla nel quaderno con il testo – Meriggiare pallido e assorto. Un concentrato di correlativi da sciogliere, per quelli bravi del liceo. Un’immersione nel tempo nostro: con il muro invalicabile che ci divide dal resto, che forse ci divide per sempre da ogni verità e conoscenza.

Bene, dico io: dopo l’indifferenza, pure lo scetticismo nichilista dell’Eugenio, gli proponi a ‘sti figli. Ma va’, dice il Giuseppe nella sua chiamata video. C’è il Maestrale, grazie al quale anche il tetro poeta scopre che c’è scritto altro nel mondo, che chissà a cosa si deve correlare ‘sto disastro che abbiamo intorno. E poi, finalmente – e intanto passa ancora una settimana, arrivano riflessioni anche scritte, e videolezioni in cui ci vuole il vigile per dirigere il traffico – ci sono I limoni. L’Eugenio qui si supera ancora: come ci arrivo allora a oltrepassare la muraglia, i cocci di bottiglia? Cammina, stai in silenzio e ascolta, custodisci questo giallo nel cuore e raccontalo in giro.

Tutto qui? Tutto ‘sto dolore e camminare per arrivare al giallo dei limoni? Ma sì, avanti: è un’altra settimana che i giovanotti e le signorine si interrogano su questo mistero. Il programma? Ce n’è uno migliore? Così mi viene da pensare al mio amico poeta Mauro Ferrari che in questi giorni da un sito di poesia lanciava una provocazione che, a dire la verità, sta maneggiando da tempo, basti pensare al volume e ai convegni degli scorsi anni su Dove la poesia? Tentando di rispondere ancora alla domanda, diceva lì che intanto la poesia è scomparsa dai programmi della scuola, che al massimo si arriva a Montale e poi la poesia sembra essere morta.

Sarà vero, si chiede? No, dice lui: c’è in giro tanta poesia di valore che ci si potrebbe fare altro che un anno di liceo su quella che si scrive oggi nel mondo. Dunque, caro Mauro: forse è vero quello che dici per le scuole superiori, tutto è sempre uguale, tutto è continuamente e tristemente ripetuto davvero fino forse all’Eugenio. Ma non sarebbe un peccato, se fosse fatto così, mi viene da dire. Se ci si fermasse anche lì. Ma in verità, nelle scuole medie qualche volta succede che si arrivi a leggere qualcosa di questi ultimi anni, di autori addirittura ancora viventi. Ma non sono molti, perché magari di poesia vera ed onesta ce n’è in giro anche oggi, ma bisognerebbe che fosse capace di parlare al cuore di tutti. E spesso, me lo dice anche Giuseppe che ne legge a centinaia, molti sono bravi, ma si parlano addosso.

Ecco, nella scuola a distanza si riscopre quello che conta davvero: programmi no, storia no, parole no. Storie, esperienze, vita che brucia e che è capace di fare sentire il suo schianto anche a noi. Poesia vera e onesta. Mi fido di Giuseppe, caro Mauro: è il tempo della poesia. Anche a scuola, soprattutto a scuola. Anche oltre l’Eugenio, certo. Ma ci vogliono uomini che accettino ancora di lasciarsi trapassare da quello che il tempo gli mette in tasca e dentro gli occhi (senza volerlo questo è addirittura il titolo di un libro di poesie del 2009. E conosci il suo autore!)

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