Dopo un anno di pausa forzata, dovuta all’emergenza sanitaria che tuttora impegna il nostro Paese, dal 3 al 5 marzo 2021 torna il tradizionale appuntamento annuale per gestori, amministratori e personale direttivo di scuole paritarie, promosso da Cdo Opere Educative, con la XXI edizione del Convegno nazionale. Il tema proposto è “Costruire e far crescere scuole oggi”. Oggi, in un tempo di grande difficoltà ed enigmatico da decifrare, il compito dell’educazione è più che mai necessario, per dare alle nuove generazioni speranza e strumenti per affrontare le sfide della vita.
Come ha dichiarato nel comunicato stampa il Presidente di Cdo Opere Educative, Massimiliano Tonarini, “il convegno 2021 vuole sottolineare che la scuola italiana ha bisogno di autonomia e pluralità, e per questo è dedicato al tema del ‘costruire scuole’, nel desiderio di contribuire ad accrescere la consapevolezza, in gestori e personale direttivo di scuole paritarie, del difficile ed insieme affascinante compito di formazione delle nuove generazioni loro affidate a favore della crescita del Paese e della scuola tutta”.
Per questo, sono stati invitati relatori che, seppure in modo diverso e da diverse posizioni – da D’Avenia a Gavosto (vedi programma completo) – presenteranno modelli e testimonianze di “costruzione e crescita” di scuole. Cioè, in definitiva, di costruzione e crescita dell’umano.
Su questo tema, abbiamo voluto intervistare uno dei relatori, padre Alberto Caccaro, missionario del Pime, per chiedergli di offrirci un “assaggio” di quanto racconterà nel suo intervento al convegno.
Padre Alberto, sei missionario in Cambogia da parecchi anni e lì hai fondato delle scuole. Perché hai sentito proprio la scuola come luogo privilegiato della tua missione?
Sono in Cambogia dal 2001 e nei primi anni, nelle prime esperienze, ho sempre cominciato da zero nel senso che il vescovo all’inizio mi ha mandato proprio a cominciare, a fondare una missione. Nel 2004 dopo lo studio della lingua ho cominciato a Prey Veng, un piccolo capoluogo di provincia, 100 km a est della capitale Phnom Penh, sulla via che porta verso il Vietnam del Sud. Nessuno prima di me aveva risieduto lì stabilmente, abitando e vivendo in quel luogo. Ho cominciato da zero, appunto. Così come attorno a me nessuno sapeva che ero un prete, un missionario, della Chiesa cattolica. Per questo, ho cercato di intercettare processi sociali e in particolare la scuola.
Quindi hai pensato alla scuola come strumento per entrare a far parte della società locale?
Certo, non c’è evangelizzazione senza entrare in questi processi che la natura delle cose ci offre, per immettervi la Grazia. La scuola, del resto, rappresenta un ambiente decisivo anche perché vi si giocano le sorti dell’umano e dunque lì Dio vuole avere una storia. La prima scuola nasce da questo impeto e dal fatto che solo se si ha una storia con questi ragazzi allora si avrà anche una comunione di destini.
Ne hai aperte, in realtà, ben quattro. Nasce da quel primo tentativo il seme delle successive opere?
Sì, le scuole successive sono state possibili proprio perché con alcuni quella storia è continuata e li ha coinvolti, questa volta non più come alunni, ma come insegnanti, cioè protagonisti a loro volta di una storia, a beneficio di altri… Nel mio ultimo libro, Al di là del Mekong, in cui sono descritte persone, situazioni, miserie e speranze incontrate quotidianamente, racconto anche questa filiazione. Sinteticamente – perché non posso qui dilungarmi oltre – potrei dire che il motivo è quello per cui don Milani definiva la scuola l’“ottavo sacramento”…
Le scuole che hai costruito hanno avuto un riconoscimento in termine di valore. Quali pensi siano stati gli ingredienti di un tale successo?
Dunque, il successo forse dipende dal fatto che la prima scuola e le scuole nate dopo hanno una dimensione (strutture, numero di alunni, numero di insegnanti) a misura d’uomo. Si dovrebbe riuscire a chiamare per nome tutti gli alunni dell’intera scuola, un po’ con quella pregnanza di cui parla D’Avenia nel suo ultimo romanzo L’appello. Un altro ingrediente decisivo è l’avverbio “veramente”. Non potendo parlare di Verità, non avendo lo stesso background metafisico e filosofico, ho declinato la parola Verità non come sostantivo ma come avverbio, cioè facendo le cose veramente.
Spiegaci meglio…
Vuol dire: sii un insegnante veramente, leggi un libro veramente, si inizia alle sette veramente, c’è un esame veramente, preparati veramente, pulisci l’aula veramente, io sono qui veramente, tuo papà prova ad esserlo veramente eccetera, non c’è ambito in cui non si declini, mentre invece spesso il sostantivo “Verità” è bello, ma resta nei cieli… La metafisica come radice verrà dopo, dopo la storia, esattamente come la Rivelazione che prima è storica e poi teologica, in una circolarità ermeneutica che consente l’introduzione alla realtà totale.
Altri ingredienti?
Come ho detto recentemente anche ai ragazzi del liceo Chomran Vicìe, che in pochi anni è diventato il punto di riferimento dell’istruzione nella provincia, il successo di una persona nasce dal concorso di molti altri compagni di viaggio: Dio, gli amici, gli insegnanti, mamma e papà, gli autori dei libri di testo e i tanti personaggi dei quali quei libri parlano. Ma so per certo che anche gli studenti si sono impegnati, hanno accettato di patire per poter capire: alcuni di loro hanno stretto la cinghia, hanno rinunciato persino al cibo pur di avere di che comprarsi libri in più, importanti per il lavoro di approfondimento. “A volte, padre – mi raccontava un nostro ex-alunno e ora studente universitario a Phnom Penh – preferisco un piatto in meno e un libro in più”.
Tutto questo avrà chiesto anche a te molto lavoro e tanta fatica. È per questo che hai scritto un libro che parla di “Cento specie di amori”, ma anche di cento dolori? Chi sono questi cento amori e cento dolori?
Il titolo del primo libro possono considerarsi i primi 100 studenti, ma l’espressione fa riferimento ad un adagio buddista: “Chi ha cento specie di amori, ha cento specie di dolori, chi ha 90 amori, ha 90 dolori” e via via decrescendo, fino a “chi ha un amore, ha un dolore, chi non ha amori, non ha dolori”. È il cuore della filosofia buddhista… A partire da qui riflettevo sul fatto che invece a me accadeva così, ma avrei voluto muovermi nel senso opposto e cioè averne 101, magari 110, forse 150… e via, via, con relativi dolori. Forse qui si consuma lo scarto fra una pratica religiosa e l’altra. Il discorso è complesso, ma questo è quanto si può dire in così poco spazio.
(Marco Lepore)