Il rischio c’è, eccome. Tanto evidente da poterci mettere subito la mano sul fuoco: le “promozioni d’ufficio”, meglio note come “promozioni da Covid-19” – pretese per decreto in ogni ordine di scuole dalla ministra Azzolina già parecchie settimane prima dell’ultima tornata di scrutini – avranno conseguenze negative anche sul prossimo anno scolastico. I troppi alunni ammessi all’anno successivo non per merito, ma solo grazie al timore (per altro fondato) di una cascata di ricorsi ai tribunali amministrativi regionali (alunni che sarebbero stati invece fermati, almeno in parte, in condizioni didattiche normali), si porteranno infatti appresso le lacune che non hanno colmato entro lo scorso mese di maggio.



Con quali ricadute sul prossimo anno (e speriamo di non andare oltre)? Facile da spiegare anche questo: da un lato, la didattica (a distanza o no) subirà un inevitabile avvilimento, dovendo fare i conti con allievi non attrezzati alla bisogna e ciò peggiorerà ancor più la curva discendente di conoscenze e competenze, in caduta libera da troppi anni; dall’altro, sempre tenendo presente lo spauracchio dei Tar, pioverà nel segmento delle medie superiori un’altra cascata di promozioni, sia pure bollate dal marchio dei “debiti” ovvero delle materie con voto insufficiente (i dati del Miur indicano che gli studenti promossi con debito negli ultimi anni sono in media non meno di 1 su 5, con punte del triplo negli istituti tecnici e professionali).



A nemmeno un mese (in qualche caso anche meno) dal suono della prima campanella, mentre il governo mostra di credere d’aver risolto i problemi della scuola italiana pensando solo a banchi con le rotelle (che si dimostreranno presto inutili), test sierologici per il personale (solo su base volontaria, ma allora a cosa servono?) e (notizia degli ultimi giorni) a far rientrare gli alunni anche senza distanziamento sociale, purché con la mascherina (tre mesi di febbrile lavoro dei dirigenti per trovare gli spazi idonei sono stati allora inutili?), l’impegno che attende gli insegnanti appare gravato da ulteriori pesi, imprevedibili soltanto sei mesi fa.



Per tutto il resto, il governo ha rispolverato la regola aurea della “scuola dell’autonomia”, che suona molto come un “ciascuna se la veda come vuole”. Anche perché la complessa gestione dell’avvio (e oltre, naturalmente) del nuovo anno di lezione implicherà il varo di quello che possiamo chiamare “lo spezzatino dell’orario” che, se (forse) non avrà un impatto sul tetto delle 18 ore di cattedra, lo avrà di sicuro sulla qualità del lavoro.

Qualche esempio? Entrate ed uscite alla prima e ultima ora verranno scaglionate quasi ovunque nell’ordine dei 30 minuti: ma se Pierino entrerà alle 8 e la sua compagna di classe alle 8.30, il docente come farà a svolgere regolare lezione in quella fascia oraria durante la quale avrà in aula solo metà degli allievi? La stessa cosa si manifesterà, ovviamente, all’ultima ora.

Nel caso, poi, di lezioni anche pomeridiane, il docente farà sì “solo” 18 ore, ma suddivise un po’ al mattino e un po’ al pomeriggio, rimanendo impegnato di fatto (pensate solo a chi ha la sede di lavoro lontana da casa) l’intera giornata. Tutto questo, ovviamente, senza implicare un aumento di stipendio. Il governo non vi ha nemmeno accennato, impegnato com’era a varare le linee guida dell’educazione alla cittadinanza, che da quest’anno entrerà nelle scuole a pieno regime (a proposito: a quale educazione tout court appartengono le “promozioni da Covid-19” indotte per paura dei ricorsi?). Giusto l’altro ieri Giorgio Vittadini ricordava da queste colonne che occorre ripartire “dalla volontà di svegliarci dalla paralisi, di trattenerci dallo scivolare nella cultura del rancore” e Giorgio Chiosso sottolineava il bisogno di “restituire la scuola ai suoi protagonisti principali: gli studenti e gli insegnanti”.

Non fingiamo ipocrisie del tipo “andrà tutto bene”. Troppe cose sono andate, invece, molto male. Aggrappiamoci invece a poche, consolidate certezze di cui speriamo aver fatto tesoro anche – magari soprattutto – in questi mesi difficili e che possiamo riassumere in due sole parole: meraviglia e sublime. Sapersi, cioè, meravigliare ancora davanti alla bellezza (altra parola chiave) della conoscenza (di qua e di là dalla cattedra) per ri-scoprire che il sublime (Leopardi direbbe l’infinito) è il significato stesso della vita (e che insegnare serve a questo). Guarda caso, le parole del Meeting di Rimini.