Il declino demografico erode la popolazione dal basso. Se la popolazione italiana è entrata in una fase di irreversibile declino dal 2014, a restringersi sono sempre più le nuove generazioni. Negli anni Settanta la classe di età demograficamente più consistente era quella degli under 10. Oggi è quella dei cinquantenni. I dati impietosi dell’inverno demografico ci dicono che gli under 10 sono scesi ai livelli della popolazione di 80 anni e più, ma risultano addirittura la metà rispetto alla fascia 50-59. Insomma, il declino dei giovani è ben anteriore al 2014 e ben più accentuato rispetto alla popolazione complessiva; al contrario gli over 65 sono in continua crescita.
Il primo riscontro della crisi demografica è quello che si ha facendo anno dopo anno l’appello di bambini e ragazzi presenti nelle aule scolastiche. Mentre il Paese dibatteva delle conseguenze della longevità che fa aumentare il numero di anziani, con acceso confronto pubblico sul tema delle pensioni e dei costi della sanità, più silenziosamente venivano erose le basi dell’edificio demografico italiano.
Gli squilibri demografici si intrecciano con quelli sociali e territoriali. A perdere giovani è più il Mezzogiorno rispetto al Nord Italia e sono più le aree interne del Paese che le aree metropolitane.
Accentua, inoltre, la spirale del “degiovanimento” quantitativo e qualitativo anche la più alta dispersione scolastica dell’Italia rispetto alla media europea e il saldo negativo di giovani qualificati che lasciano il luogo di nascita. Anche questi due fenomeni sono più accentuati nelle Regioni meridionali, le quali si trovano quindi con una riduzione degli studenti delle scuole inasprito dall’abbandono prematuro e con una crescente propensione dei giovani con alte aspirazioni a iscriversi negli atenei del Nord o direttamente all’estero, come confermato dall’ultimo Rapporto Svimez.
Secondo i dati Istat, la percentuale di giovani tra i 18 e i 24 che hanno lasciato precocemente gli studi è stata nel 2023 pari al 10,5% a livello nazionale. Un dato in riduzione ma che continua ad essere tra i peggiori in Europa (la media Ue-27 è 9,5%). Spiccate sono le differenze territoriali e sociali: il dato sale al 14,6% nel Mezzogiorno e a circa il 24% tra chi ha genitori con titolo di studio basso (contro meno del 2% tra chi ha un genitore laureato). Queste fragilità formative deprimono la mobilità sociale e vanno ad accentuare lo “spreco” del potenziale delle nuove generazioni nei processi di sviluppo del territorio in cui vivono. Come molte ricerche evidenzino, l’incidenza dei NEET (i giovani che non studiano e non lavorano) è infatti strettamente legata alla dispersione esplicita e implicita (carenza di competenze di base considerate indispensabili per la cittadinanza attiva e per la vita professionale).
L’approccio di fondo non può, quindi, essere quello di rispondere alla riduzione quantitativa delle nuove generazioni con un riadattamento al ribasso dell’offerta formativa per risparmiare sulla spesa pubblica (su cui pesano in modo crescente i costi dell’invecchiamento della popolazione). Va, invece, fatto con determinazione il contrario: riattivare un percorso virtuoso di stimolo tra domanda e offerta, con al centro il potenziamento qualitativo dei giovani a partire dalla qualità della formazione, lungo tutto il percorso di istruzione e su tutto il territorio italiano.
Un Paese con nuove generazioni più solide è anche la miglior garanzia per un Paese complessivamente più solido, ovvero con maggior capacità di sviluppo e di benessere sociale a beneficio di tutte le età della vita.
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