Chiedo ai miei fidati studenti, pronti (si fa per dire) a iniziare il loro ultimo anno di liceo: “Cosa vi aspettate da quest’anno scolastico? E, in particolare, dall’insegnamento della letteratura?”. Li incalzo, ricordando loro come la traccia più gettonata agli ultimi esami abbia riguardato il valore dell’attesa nella società del tempo reale. Anche i miei studenti trascurarono le tracce letterarie, su Quasimodo e Moravia, per buttarsi sul tema di attualità. Per me, che vivo la letteratura come destino, fu una pugnalata alle spalle. Io, al loro posto, avrei scelto senz’altro Quasimodo o Moravia, per quanto nessuno dei due mi entusiasmi.
Chi ama la letteratura sente gli autori come fratelli i quali, anche quando sbagliano, restano fratelli. Un po’ come gli appassionati di calcio: si esaltano per un 4 a 3, però colgono la bellezza del gioco anche in uno stiracchiato 0 a 0 e trovano sempre qualcosa da valorizzare. La lingua letteraria è sorpresa, imprevisto, deviazione dalla norma e dall’uso: qualcosa che ci spiazza eppure ci corrisponde. Lo sanno bene i commissari d’esame: i temi letterari sono spesso interessanti e personali, quelli di attualità finiscono per assomigliarsi tutti. Mi consola che la traccia scelta in occasione dell’ultima maturità sia stata un bel testo di Marco Belpoliti, che suggerisce molte direzioni di sviluppo. Sull’attesa, scrive la mia allieva Elisabetta: non abbiamo voglia di pensare alla ripresa della scuola, “eppure stiamo tutti attendendo, anche se inconsapevolmente”; l’attesa apre alla ricerca, “e capisci che qualcosa è buono solamente quando più si fa cercare”. Di rincalzo Gabriela: “aspetto quest’anno scolastico con ansia e gioia, benché la mia attesa sia solo un grido di speranza”.
Quante volte la letteratura ha raccontato l’attesa! E in quanti modi diversi! Si va dal fiducioso protendersi nel futuro della fanciulla leopardiana del Sabato del villaggio, all’attesa delusa della Sera del dì di festa, al Sogno del prigioniero che chiude la Bufera montaliana, con quel verso indimenticabile: “L’attesa è lunga, / il mio sogno di te non è finito”; pensiamo all’eroina di Flaubert, Emma Bovary, divorata dalla noia, ma che non può fare a meno di desiderare: “In fondo al suo cuore, tuttavia, era una grande attesa, l’attesa di un avvenimento vero”; ancora, lo sguardo alla finestra, sospeso tra passato e futuro, della Eveline di Joyce, all’“imminenza di attesa” di Rebora, all’attesa ineluttabile di Pavese nel Mestiere di vivere: “Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?”.
Ed ancora, le attese metafisiche di Buzzati e di Beckett; o, più esistenzialmente, immaginiamo Kafka mentre attende le favolose lettere di Milena Jesenska e chissà, proprio in quei momenti, avrà concepito i suoi capolavori. Quante cose abbiamo perso, insieme con la civiltà contadina, con questo volere “tutto e subito”, frase simbolo della società contemporanea. Lo scrive, con nostalgia immedicabile, Pierluigi Cappello nella prosa Un dolore lungo un addio, parlando di un disagio “innanzi tutto ritmico”: nella civiltà contadina e artigianale “la parola subito non era contemplata, meno che mai la parola tutto e tutto e subito messe insieme suonavano come una dismisura inaudita”. Ma questo può essere colto anche da chi vive in una società ben diversa, come quella aristocratica descritta da Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo, quando lo scrittore indugia sui due innamorati, Tancredi e Angelica, prima del matrimonio, quando “godevano nell’inseguirsi, nel perdersi, nel ritrovarsi”, nelle vaste sale del palazzo.
Chi non sa attendere non sa vivere. Così, nella nostra infanzia, accadeva che una zia ci donasse un dolce o una caramella, ammonendoci: “Non aver fretta di mangiarli, aspetta un po’, dopo li gusterai di più”. Era la saggia esortazione a vivere l’attesa, a capire il valore di un dono, a pensarlo. Dalle cose piccole eravamo avviati a considerare e a rispettare le cose grandi, non essendoci tra loro differenze di natura, ma solo di entità.
Solo con questa pedagogia i giovani possono essere introdotti alla realtà, per vivere pienamente il tempo, e anche la noia, secondo Leopardi “il più sublime dei sentimenti umani”: il poeta, con uno straordinario rovesciamento di prospettiva, aveva compreso che “tutto è poco”, rispetto alla capacità del nostro animo, e proprio in questo vedeva “il maggior segno di grandezza e di nobiltà” della natura umana. Insegniamo i nostri studenti a riconoscere il valore positivo dell’insoddisfazione, il segno di una ferita che si apre alla domanda, facciamoci servitori delle loro inquietudini.
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