Di Harold Bloom, il grande critico letterario americano recentemente scomparso, ci resterà forse, più di ogni altra cosa, la sua strenua battaglia, combattuta fino quasi all’ultimo giorno, in difesa del potere dell’immagine che la grande letteratura ci consegna. Più di qualunque concetto, più di qualunque teoria o peggio ideologia, la letteratura ci trasmette la potenza visionaria della vita. “Grigia è ogni teoria, verde l’albero d’oro della vita”, esclama Goethe nel Faust.
Nadia Fusini, che ebbe la fortuna di ascoltare le sue lezioni, ha tracciato un ritratto di Bloom lieve e appassionato, rievocandone la difficile infanzia newyorkese degli anni Trenta. Scorgiamo un bambino di appena sei anni con un libro in mano: allo zio commerciante che gli chiedeva cosa volesse fare da grande, il piccolo Harold rispose: “Voglio leggere poesia”. Allora lo zio gli spiegò che esistevano professori di poesia ad Harvard e a Yale, al che il bambino replicò: ”Allora farò il professore di poesia”.
L’amore per la lettura fu sempre la base della sua attività critica. “Come può esserci critica senza amore della lettura?”, si chiedeva. Gli adulti felici sono quelli che realizzano i loro sogni infantili, rimanendo fedeli alla vocazione intravista da bambini: ”Se segui la tua stella, non puoi fallire a glorioso porto”, dice Brunetto Latini rivolto all’allievo Dante.
Bloom insegnò Letteratura a Yale per quasi tutta la vita: l’ultima lezione la tenne il 10 ottobre scorso, quattro giorni prima di morire. “Amava in modo appassionato la vita, e in essa la letteratura, perché la letteratura è vita”, aggiunge ancora Fusini. Come non poteva separare la letteratura dalla vita, così non poteva disgiungere la scrittura dall’insegnamento, perché quest’ultimo gli sembrava “il compagno inseparabile della lettura e della scrittura”.
Insegnare è comunicare ai giovani lo stupore per la propria scoperta, il senso di una ricerca inesauribile: ogni insegnante sa per esperienza che appena legge o incontra qualcosa di bello nella giornata, pensa già a come dirlo ai suoi studenti la mattina seguente. Come scrive ancora Nadia Fusini, “se con tanto entusiasmo ancora ieri insegnava poesia, era perché la poesia aveva rappresentato l’inizio del suo risveglio, e sperava che il miracolo potesse ripetersi per ogni giovane uomo o giovane donna che lo seguiva”.
Il suo amore era contagioso, travolgente: aveva fiducia che i giovani potessero capirlo e condividere le sue passioni. Nonostante gli scrittori avvertano spesso dolorosamente la diversità dalla maggior parte dei loro simili, tanto da sentirsi in esilio “in mezzo agli uomini”, non possono non sentirsi “in pena” per loro, come scrive Ungaretti: il poeta è un “grido unanime”, fratello di umanità.
Lo ribadisce splendidamente Orhan Pamuk ne La valigia di mio padre: “un autore parla di cose che tutti sanno senza esserne consapevoli. Esplorare questo sapere e vederlo crescere dà al lettore il piacere di visitare un mondo familiare e insieme sorprendente. Quando un autore si chiude per anni in una stanza per affinare la sua arte, quella di creare un mondo, se usa le sue ferite segrete come punto di partenza ripone, che lo sappia o no, una grande fede nell’umanità. La mia fiducia viene dalla convinzione che tutti gli esseri umani si somigliano, che altri portano ferite come le mie e che quindi capiranno. Tutta la vera letteratura nasce da questa certezza fiduciosa e infantile che tutti gli individui si somiglino”.
Qualcosa del genere mi è accaduto in classe pochi giorni fa, leggendo ai miei studenti l’operetta morale di Leopardi Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare. Alla fine del dialogo, stretto tra gravi ragionamenti sulla verità, sulla felicità irraggiungibile, sulla noia, argomenti che potrebbero apparire ostili ai diciottenni, Tasso, quasi stupito della sua stessa considerazione, dice al suo interlocutore che la conversazione lo aveva confortato: la sua tristezza gli era parsa finora “una notte oscurissima, senza luna né stelle”; da quando sto con te, invece, essa somiglia “al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto”; affinché “d’ora innanzi io ti possa chiamare o trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare”.
Il dialogo ha aperto strade sconosciute e il malinconico poeta, sdegnoso di ogni rapporto umano, chiede ora compagnia. Domando ai ragazzi: non è forse successo anche a noi, oggi, la stessa cosa?