“Il signor M’Choakumchild … aveva superato tutti gli esami possibili e aveva risposto a interi volumi di domande astruse. Ortografia, etimologia, sintassi e prosodia, biografia, astronomia, geografia e cosmologia generale, teoria delle proporzioni, algebra, agrimensura e livellazione, musica vocale e disegno dal vero: aveva tutto sulla punta delle sue dieci gelide dita … aveva colto il fiore dai rami più alti delle scienze fisiche e matematiche, del francese e del tedesco, del latino e del greco. Sapeva tutto su tutti i bacini idrici del mondo (qualsiasi cosa fossero), e tutta la storia di tutti i popoli e tutti i nomi di tutti i fiumi e di tutte le montagne e tutti i prodotti, usi e costumi di tutti i paesi, e tutti i rispettivi confini e la loro posizione in relazione ai trentadue punti della bussola… Ah, se solo avesse imparato un po’ di meno, quanto meglio e quante più cose avrebbe insegnato!” (C. Dickens, Tempi difficili, Milano, Rizzoli 1990, p.13)



Anche questa volta devo incominciare chiedendo scusa per la lunghezza della citazione, non proprio recentissima (Tempi difficili fu pubblicato nel 1854), ma l’introduzione del docente esperto mi ha richiamato irresistibilmente il professor Choakumchild (il cui nome, secondo alcuni malvagi, significa più o meno “uno che rende impossibile ai bambini di respirare”…) e soprattutto la gelida ironia con cui Dickens afferma che se avesse saputo meno cose, sarebbe stato un insegnante migliore.



Non è così semplice, naturalmente, ma i paradossi nascondono spesso una verità. Se la qualità della scuola dipende dalla qualità degli insegnanti, affermazione condivisa da tutti, ne consegue che per ottenere una buona scuola, che è l’obiettivo a cui tendiamo, è necessario avere dei buoni insegnanti: ma quando si può dire di un insegnante che è “buono” (o, per togliere ogni sospetto di riferimento etico, “performante”)? E come fare ad attirare all’insegnamento giovani di qualità, problema comune a quasi tutti i Paesi industriali?

Una considerazione abbastanza stupefacente è che non esiste un profilo professionale del docente: qualche indicazione si può ricavare dagli esiti attesi dei corsi di laurea in scienze della formazione primaria, che al momento attuale sono i soli a formare esplicitamente persone che andranno ad insegnare nella scuola primaria o dell’infanzia, e non laureati in eccesso riciclati, secondo l’attualissima definizione data da Marzio Barbagli nel 1973. Io l’ho fatto, quando insegnavo a Genova, e se ne ricavano poche e generiche indicazioni o, in alternativa, un profilo che oscilla fra gli eroi della Marvel e il profeta minore.



Ora, l’insegnante è innanzitutto un professionista, capace di collegare la teoria con i problemi che la scuola quotidianamente gli pone elaborando soluzioni originali sulla base dell’esperienza (il professionista riflessivo di Schön), e del professionista deve avere le qualità, tra cui un’ottima preparazione nelle materie che insegna, una capacità didattica (ci sono ottimi ricercatori che sono docenti modesti, come ben sa ogni studente universitario) che comprenda anche la valutazione, e infine le competenze necessarie a leggere il contesto famigliare e sociale, oltre che personale, dei suoi ragazzi.

Poiché il mondo che lo circonda continua a cambiare velocemente, deve fare un’accurata manutenzione delle proprie competenze, ed è più di ogni altro destinatario di una formazione permanente. Deve infine possedere, se non la “vocazione” di cui si parlava nei bei tempi antichi, magari per pagare di meno gli insegnanti, quantomeno un’attitudine a lavorare in un settore così impegnativo: in cambio, deve essere trattato come un professionista, e non come un burocrate.

Che cosa si può fare da subito per avviare un cambiamento? Anche qui, alcune proposte realistiche che possono essere realizzate a normativa vigente:

1. costruire un profilo professionale degli insegnanti, o quantomeno definire i loro compiti principali e articolarli in un percorso formativo flessibile ma preciso, costruito insieme dalle università e dalle scuole, che oggi tendono a mostrare una reciproca sfiducia. La formazione universitaria costituirà la fase iniziale di un percorso comune a tutti (le “sanatorie” che hanno inserito nella scuola decine di migliaia di docenti vanno abolite e forse anche perseguite penalmente), che esige una formazione in servizio legata alla professione nel suo complesso e non solo ai contenuti della materia, che pure vanno tenuti al passo dei tempi;

2. per assicurare un numero sufficiente di docenti all’inizio dell’anno, poiché il numero degli studenti può essere previsto con ragionevole approssimazione con anni di anticipo, inclusi i fenomeni migratori, determinare il numero e il tipo di docenti necessari in un quinquennio, e provvedere alla loro qualificazione, tenendo conto, nel fissare il numero di iscritti ai corsi, degli abbandoni, degli spostamenti e quant’altro;

3. per evitare che entrino nella scuola, per rimanerci tutta la vita, persone non qualificate, al termine del percorso formativo iniziale, che comprende necessariamente un periodo di praticantato assistito, valutare e certificare il possesso delle competenze considerate indispensabili;

4. per evitare il turbinio dei trasferimenti, che resterà inevitabile finché le assegnazioni verranno fatte centralmente, serve a poco vincolare l’insegnante in un posto che non gli piace: si deve consentire alla scuola di scegliere l’insegnante, ma anche all’insegnante di scegliere la scuola, in base non tanto alla residenza (finché gli insegnanti verranno prevalentemente dal Sud, la mobilità è inevitabile) quanto alla condivisione del progetto educativo, come avviene nelle scuole paritarie. Lo Stato fissa i requisiti e ne controlla il possesso, mentre il reclutamento va fatto dalle scuole o dalle reti di scuole fra coloro che ne hanno diritto. Quest’ultima affermazione la scrivo più o meno dai tempi di Dickens, ma la sua realizzazione mi sembra sempre più lontana;

5. per accrescere la motivazione, elemento determinante per la qualità dei docenti, è necessario abbandonare la logica del tutti insieme appassionatamente, e accrescere la differenziazione: una volta fissato il salario minimo stabilito con la contrattazione sindacale, le scuole dovrebbero poter modificare la retribuzione in base alla materia, alle difficoltà ambientali, alle mansioni svolte, all’orario di insegnamento e anche, perché no, in base al merito. Se poi si vuole conservare l’avanzamento salariale in base all’età, si possono accelerare i passaggi: in Italia per raggiungere il salario massimo ci vogliono 35 anni (e la retribuzione è pari al 50% in più di quella iniziale), mentre in altri Paesi è possibile abbreviare il periodo fino a 15 anni, e la retribuzione può arrivare a più del doppio rispetto a quella iniziale;

6. l’insegnamento è un lavoro logorante: per evitare i rischi reali e diffusi di burn out, la sindrome di fallimento riscontrata inizialmente per il personale sanitario che lavorava con i malati terminali, si possono e si devono prevedere periodi sabbatici in cui svolgere un altro tipo di lavoro o da dedicare alla formazione. Esperimenti di questo genere sono stati fatti con esiti molto positivi: mi sembra di ricordare che se ne fosse parlato in fase di discussione della “Buona Scuola”, ma poi non se ne è fatto niente;

7. gli insegnanti devono accettare la valutazione, intesa non come raffinato esercizio di attribuzione delle colpe, secondo la definizione di Eraut, ma con lo stesso valore diagnostico e formativo che viene assegnato alla valutazione degli studenti. Questo comporta la formazione di un personale adeguato (il corpo ispettivo) con funzione di supporto allo sviluppo delle scuole, e solo in casi eccezionali di controllo di comportamenti impropri;

8. ……. (qui ognuno inserisca il suo personale parere sugli insegnanti e i processi di formazione, reclutamento e carriera).

Quanto detto finora trae ispirazione non solo dalle mie personali esperienze e convinzioni, ma dai documenti internazionali, come i rapporti di Education at a glance e il Rapporto di Eurydice sugli insegnanti europei del 2021: a chi parla di “adeguare lo stipendio a quello degli altri insegnanti europei”, in particolare, consiglierei la lettura delle condizioni di lavoro (numero medio di alunni per classe, ore da passare a scuola o in attività collegate all’insegnamento, ore da passare in classe, etc.). Infine, qualsiasi decisione deve riguardare tutti gli insegnanti, inclusi quelli delle scuole paritarie, che vengono sistematicamente penalizzati da molti punti di vista, inclusa l’attribuzione di un valore inferiore agli anni di insegnamento, e l’abitudine dello Stato di sottrarre alle scuole paritarie gli insegnanti da loro faticosamente formati.

E’ solo con l’ottimismo della volontà che si può sperare in una decisa inversione di rotta, anche se per equilibrare la citazione di Gramsci concluderei riferendo alla scuola l’indimenticabile battuta di Humphrey Bogart: “ Questa è la stampa, bellezza … e tu non ci puoi fare niente”.

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