Il dramma ancora vivo in noi vissuto da Giulia Cecchettin, i fatti tragici di Paderno Dugnano, il suicidio di Leonardo a Senigallia, la tragica morte di Ramy Elgaml e le violente proteste scoppiate al Corvetto… Aggiungiamo a questo elenco decine di ferite e di ingiustizie che tutti i giorni abbiamo sotto gli occhi nelle nostre classi: ragazzi senza più punti di riferimento familiari che si buttano via e si perdono nelle strade dell’alcol e delle marijuana; adolescenti che, non sopportando i pesi della realtà e i giudizi della società, compiono gravi atti di autolesionismo o si isolano dal mondo; giovani che soffrono le più strane e sconosciute patologie fisiche e psicologiche. Una domanda: ma si può entrare in aula e dimenticare tutto ciò? Non solo questo, ma anche le difficoltà che si vivono in casa – coi figli, con il coniuge o i genitori anziani e malati -, le storie che ogni giorno si ascoltano in sala prof riguardo a vicissitudini o malattie affrontate dai colleghi, fino alle guerre in corso in Medio Oriente o in Ucraina?



Un insegnante pensa che il suo mestiere sia di trasmettere la propria materia a un gruppo di ragazzi. Questo cosa vuol dire? Significa che quello che ha studiato e approfondito all’università e nel suo percorso di docente, lo ridice alla classe, così come si travaserebbe una certa quantità d’acqua da un bicchiere a un altro recipiente. Purtroppo non si capisce che in questo passaggio l’acqua non resta mai la stessa. Nel travaso intervengono mille altri fattori: l’aria, il movimento e lo scuotimento, la luce, gli odori e le sostanze che possono esserci in quel determinato ambiente. Oggi è sempre più evidente che il nostro primo dovere di insegnanti non è la comunicazione dei saperi tradizionali, come fossero elementi da mantenere puri in provetta, ma è di cogliere quei saperi dentro il sommovimento della realtà.



Se non viviamo intensamente tutto ciò che accade in modo che le circostanze provochino in noi sempre nuove domande, rischiamo di rimanere degli “specialisti del particolare”, di essere cioè dei perfezionisti della nostra materia, o di un piccolo tassello ritagliato dal tutto; senza comprendere che il sapere o è sempre rinfrescato e rivitalizzato dalla nostra partecipazione alla realtà – quei fatti che ci accadono tutti i giorni, comprese le ingiustizie dei nostri superiori, le vicissitudini dei nostri ragazzi, i loro dolori e le loro sconfitte, i problemi che vivono i colleghi – oppure rimane un cibo secco e immangiabile per gli studenti. C’entra moltissimo il non essere “ignavi”, come direbbe Dante, davanti ai drammi che si pongono. Si può insegnare solo se si vivono le cose. Solo se si è feriti da ciò che accade, in modo che i fatti interroghino noi, ma anche le nostre discipline.



In un incontro con degli insegnanti ad Assisi, nel 1978, don Luigi Giussani affermava: “L’adulto non è un bravo competente nel suo ramo, perché il bravo competente nel suo ramo si può trovare dovunque… Occorre quindi che ognuno di noi diventi un soggetto maturo che generi presenza e vita”. L’insegnamento o è una vita o – attraverso discorsi o nozioni – non comunica più nulla. I ragazzi hanno bisogno di guardare a un adulto che proponga loro il suo modo di affrontare tutti i problemi che la vita pone, usando anche la materia che spiega. Anche da come reagisce a un insetto che entra in classe dalla finestra, o da come coglie una domanda posta da un alunno, si coglie la natura e la forza di un educatore.

Continuava Giussani: “Abbiamo troppa carenza di questa presenza, in un momento che lo richiederebbe. C’è una folla di gente smarrita, di ragazzi smarriti, c’è una cultura che sta sfasciandosi… e noi siamo zeppi di una ricchezza e camminiamo come se non ci accorgessimo di nulla. Non ci accorgiamo e non ci stiamo a questa domanda che ci vien fatta…” (Assisi ‘78, pagg. 50-51).

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