Degli ultimi giorni è la lettera del professor Marinelli e dei suoi colleghi di Trento, dopo il caso della studentessa del loro Istituto riammessa alla maturità a seguito di un ricorso al Tar. Il ministro Valditara ha risposto, mostrandosi attento e sollecito alle questioni poste dai docenti. Sono questi solo degli esempi che denunciano una situazione della scuola da più parti ritenuta in stato di emergenza e bisognosa di una riforma complessiva, ormai non più procrastinabile.



I mutamenti in atto nella società in cui viviamo e nei ragazzi che incontriamo chiedono di ripensare la scuola: il suo ruolo e il suo scopo nella società, la sua organizzazione, il modo di formare e reclutare i docenti. Si tratta di una realtà molto complessa, ma le sfide che si trova ad affrontare, semplificando un po’, possono essere riassunte in: rapporto scuola-famiglia; salute mentale dei giovani; irrompere nella vita quotidiana dell’intelligenza artificiale generativa. Per nessuno di questi problemi, naturalmente, ci sono facili soluzioni, vorrei, però, proporre due riflessioni che mi pare possano tracciare una strada per giungere a delle risposte.



Sottesa a ogni dibattito sulla scuola c’è la questione di sempre, vale a dire che cosa voglia dire educare. Dapprima vorrei, dunque, provare a ribadire quello che a me, sulla scia di grandi maestri quali don Bosco e don Giussani, pare essere il cuore della questione educativa. Per farlo, sfrutto una scena di “Don Camillo”. Peppone e i suoi compagni hanno appena vinto le elezioni del paese e don Camillo si sta sfogando col Crocefisso, perché hanno vinto degli analfabeti che non possono essere in grado di amministrare il comune. Il Cristo, allora, redarguisce il curato, dicendogli: “Don Camillo, non è la grammatica quello che conta, ma il cuore!”.



Con questa piccola battuta il Cristo riafferma che cosa sia davvero essenziale nella vita di una persona: non le regole grammaticali o altre competenze, bensì il cuore, cioè, sperando di non strumentalizzare troppo le parole di Guareschi, la capacità di amare e di accogliere l’amore, la necessità di scoprire il senso delle cose. Questa capacità, pertanto, è ciò che l’educatore deve cercare di suscitare nell’educando. Soltanto in questo orizzonte varrà la pena insegnare la grammatica, i calcoli matematici e via via tutte quelle competenze sempre più complesse e specifiche che il mondo di oggi richiede. Sarebbe davvero triste, infatti, se noi formassimo persone esperte di un ambito determinato, ma smarrite nella loro capacità di cogliere il senso dell’esistenza, nella capacità di amare un’altra persona e di lasciarsi amare. Un rischio che, forse, nella società odierna non è poi così remoto.

Non perdere di vista la questione educativa penso sia il primo argine nei confronti delle sfide sopra menzionate e, pur non riempiendo le pagine di giornali o social network, ci sono molti docenti che di un tale orizzonte sono testimoni, come rappresentato anche dalle ultime newsletter di Mario Calabresi. Alla buona volontà dei docenti, tuttavia, è necessario si affianchi una più convinta azione istituzionale, che favorisca l’impegno educativo dei docenti, senza farne disperdere le forze in enormi vincoli burocratici, di cui la scuola di oggi è piena.

Anche per rispondere alle grandi sfide di oggi penso, dunque, possa valer la pena rimettere al centro del dibattito pubblico e dell’azione del governo la questione della parità scolastica. Pronunciare queste parole in Italia appare ancora rischioso e quasi blasfemo per una certa parte politica. Eppure, mai come ora appare urgente raggiungere quella piena parità che soltanto la parità economica può garantire. In diversi interventi il cardinale Scola ha ribadito quali siano le ragioni per cui è importante il pluralismo scolastico; la stessa cosa, nutrita di proposte pratiche, hanno fatto illustri relatori di associazioni e realtà educative in un seminario con il ministro Valditara tenutosi il 5 giugno scorso nel palazzo di Regione Lombardia, dal titolo “A che cosa serve la scuola?”.

Ma perché dalla parità scolastica dovrebbero arrivare risposte adeguate all’emergenza educativa? Semplicemente perché, come in altri ambiti, anche rispetto alla scuola è folle pensare che un sistema centralistico possa rispondere esaurientemente ai problemi. Chi meglio delle scuole che accolgono ogni anno migliaia di studenti e hanno a che fare con le loro famiglie può conoscere le loro esigenze e cercare risposte? E chi può dire che tra le risposte valide ci siano solo quelle provenienti dalle scuole statali? Non è, al contrario, anche dalle scuole non statali che spesso arrivano risposte e proposte in grado di segnare una strada?

Compito dello Stato non dovrebbe, quindi, essere quello di favorire queste realtà e metterle in pari condizioni nell’ottica di una “concorrenza” virtuosa? Le scuole potrebbero così essere esortate a divenire veri e propri laboratori, in grado di valorizzare ciò che proviene dalle pratiche passate e di scovare nuove modalità o risposte ai problemi di oggi. L’attuale maggioranza sembra che stia compiendo qualche tentativo in questa direzione. È giunto il momento di un’azione più convinta?

 

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