“Prof, ma è tutto qui? Abbiamo camminato così tanto per questa roba?” Questa “roba”, come dice tutta delusa una ragazza della classe che ho accompagnato in “gita scolastica”, sarebbe la Cappella Sistina, in particolare, il Giudizio Universale. Circondati da turisti a bocca aperta, gente che magari ha fatto migliaia di chilometri e ha speso una fortuna per essere lì, quasi tutti i miei studenti, in modi diversi, sembrano manifestare la loro estraneità a quella meraviglia. A nulla valgono i miei disperati tentativi di rianimazione culturale, consistenti in una raffica di domande su quello che li ha colpiti o di spiegazioni su questo o quel particolare dei dipinti. Comprendo subito che non è trasformandomi in guida turistica aggiunta che si muoverà qualcosa in loro. Il fatto è che sembrano privi di domande di fronte a quella “roba” che apparentemente sentono distante, aliena, forse nemica.



Mi guardo intorno un po’ triste e vedo che anche altre scolaresche, confuse tra i turisti, hanno più o meno lo stesso atteggiamento dei “miei” studenti. Questo non mi consola, anzi amplifica i pensieri negativi sull’opportunità delle “gite”, sul dare “le perle in pasto ai porci” che riecheggia talvolta nelle riunioni scolastiche nei momenti di sconforto. Non basta a placarmi neanche il ricordo di don Giussani e don Milani che portavano i loro ragazzi in montagna o al mare per aprire il loro cuore ad una bellezza mai prima sperimentata. O di me stesso che tante volte ho fatto praticamente lo stesso, godendo poi dello stupore luminoso sui volti di decine di giovani, anche nelle “gite”.



Ma poi, proprio quando l’avvilimento sta per avere la meglio in me, noto che i ragazzi stanno reagendo e si mettono in movimento facendosi dei selfie clandestini di gruppo in un modo particolare. Si abbracciano in cerchio e, riprendendosi dal basso con lo smartphone, formano con i loro volti sorridenti una cornice agli affreschi di Michelangelo sul soffitto della cappella. Mi accorgo anche che molti gruppetti fanno il loro selfie scegliendo come sfondo la celeberrima creazione di Adamo e un motivo ci sarà. Penso che siano gesti molto interessanti. Come quello di un’altra mia alunna che sotto il cielo caldo e già primaverile della capitale, con l’aiuto di due fedeli amiche, aveva trasformato la terrazza di Castel Sant’Angelo in un set fotografico facendosi ritrarre come una top model con lo sfondo fantastico di tutta Roma. Ci avevo anche scherzato un po’ sopra con lei, ma ora mi sembrava di capire meglio un comportamento del genere.



Le “loro” immagini e la “loro” musica, che piacciano o no a noi adulti, costituiscono gli architravi della cultura giovanile e sono da tempo convinto che se non li prendiamo sul serio non andremo molto oltre la lagna e lo sdegno nel rapporto con i ragazzi. In questo caso, ad esempio, con le loro foto dicono a noi insegnanti: cari prof, noi magari non sappiamo perché Michelangelo è così bravo come dite voi e perché tutte queste cose viste sono così importanti, però “sentiamo” che hanno a che fare con noi e il senso della nostra vita, sono lì per noi; perciò, intanto le custodiamo sullo smartphone come testimonianza di un nostro incontro con loro, le facciamo entrare nella nostra vita così, nell’attesa che qualcuno ci insegni a comprenderle meglio con la ragione e a fissarle per sempre nel cuore.

Non tutto è perso dunque e fiducioso mi rimetto ad ammirare le immagini del “divin maestro” perché sono lì innanzitutto per me, ancora una volta, più belle che mai. I ragazzi mi hanno liberato dall’ansia della performance scolastica. Piuttosto che scandalizzarmi e deprimermi, ho capito ancora una volta che devo ripartire da ciò che vedo accadere in loro e in me per vivere un cammino quotidiano di conoscenza insieme. Lo scopo sarà quello di tradurre quei sentimenti, quelle immagini, quegli umori in giudizi, in scoperte, in parole, con cui raccontare la propria umanità, la propria vita e proporgli altri giganti che, come Michelangelo, hanno prima di noi fatto lo stesso lavoro. Tutto piano piano, con pazienza.

C’è una scena molto significativa che esprime plasticamente tutto questo nel film Un mondo a parte. Il maestro Michele porta i suoi bambini a fare una passeggiata nel bosco per ascoltare i versi degli uccelli e imparare a distinguerli, ma ben presto si rende conto che la sua è solo una conoscenza teorica della realtà, appresa dai libri. Così, le parti si invertono e sono i bambini a spiegare al maestro la diversità e la bellezza del canto degli uccelli.

Alla fine, una bambina indicando i monti innevati e il lago a fondovalle esclama: “Mae’, guarda che bello!”. E la voce silenziosa e potente della Bellezza unisce maestro e bambini in uno sguardo stupito e commosso. Il maestro non deve rinunciare ovviamente a comunicare quello che è importante ai bambini, sarebbe un altro astratto schema pedagogico, ugualmente dannoso. Ma si deve prima costituire uno spazio comunicativo reale che nasca e cresca nell’ascolto e nell’accoglienza dell’altro e della sua vita. Solo così si può partire insieme ed arrivare dovunque.

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