Dopo il bellissimo libro di Lorenzo Marone (Le madri non dormono mai), un altro libro appena uscito, scritto “dalla parte dei bambini”. Si intitola Passoscuro, è stato nel mese di ottobre presentato alla trasmissione “Quante storie” ed è scritto da Massimo Ammaniti, psicoanalista ed ex docente di psicopatologia dello sviluppo, nonché padre dello scrittore Niccolò.



È uno dei testi in cui il confine tra letteratura e scientificità è molto labile, per cui dovrebbe essere oggetto non solo di lettura ma di attento studio da parte di insegnanti e psicologi. La ragione sta nel fatto che nel descrivere le condizioni tragiche in cui vivevano i bambini nel Padiglione n. 8 dell’Ospedale Psichiatrico Santa Maria della Pietà, Ammaniti precisa anche, in modo estremamente efficace, quali dovrebbero essere le condizioni familiari e ambientali affinché un bambino possa svilupparsi in modo adeguato.



Ancora una volta (come già hanno fatto molti studiosi) egli sottolinea che la prima condizione, quella di partenza, dovrebbe consistere nel credere nelle possibilità di sviluppo, nel non ritenere che sia possibile parlare di irrecuperabilità, nell’osservazione attenta e quotidiana, nella negatività delle situazioni di caos e di assenza di regole, in comportamenti apparentemente banali quali ad esempio l’appello.

“Il nome di ogni alunno ripetuto tutte le mattine diventa un rituale che sancisce la presenza o l’assenza all’interno di una comunità” (p. 104) e permette a tutti di acquisire la consapevolezza del proprio nome, primo gradino per la costruzione dell’identità. Allo stesso modo, è fondamentale il contatto oculare, che “accelera la comunicazione con gli altri” (p. 106). Si tratta di comportamenti e situazioni che non configurano un “metodo di insegnamento” ma che dovrebbero essere espressione della competenza di base dell’insegnare.



Non si può non rammentare come già Montessori avesse scoperto, all’inizio della sua attività, i bambini del manicomio di Roma: erano i cosiddetti “frenastenici”, cioè deboli di mente, o, più comunemente, “deficienti” o “idioti”, che, oltre al ritardo mentale, comprendevano casi di cecità, mutismo, sordità, epilessia, paralisi, autismo, rachitismo, disturbi caratteriali, demenza da malnutrizione. Considerati incurabili e quindi rinchiusi a vita, vestiti con un grembiule di tela grezza, sporchi, inselvatichiti, erano forse l’aspetto più terribile di quel luogo spaventoso (p. 45 di Il bambino è il maestro, di Cristina De Stefano). Anche Montessori aveva sottolineato l’importanza dell’appello: “i bambini attendono che lei – dalla stanza accanto – li chiami. Pronuncia ogni nome a voce bassa, allungando le vocali. Come se li chiamasse da lontano, e ogni piccolo si alza senza fare rumore e la raggiunge, felice di essere stato scelto: ‘Dopo tali esercizi sembrava ch’essi mi amassero di più: certo erano diventati più ubbidienti, più dolcemente miti. Infatti ci eravamo isolati dal mondo e avevamo passato qualche minuto insieme uniti tra noi: io a desiderarli e chiamarli, ed essi a ricevere, nel silenzio più profondo, la voce che si rivolgeva personalmente a ciascuno di loro, giudicandolo in quel momento il migliore di tutti’ (De Stefano, p. 109).

Non a caso Ammaniti e Montessori presentano, in epoche diverse e a distanza di sessant’anni, il comune riferimento agli studi di Edouard Seguin. È tragico però dover constatare come all’inizio degli anni Settanta, quando Ammaniti entra per la prima volta nel manicomio, non fosse cambiato quasi nulla: bambini di pochi mesi venivano diagnosticati come “pericolosi a sé e agli altri” e rinchiusi in manicomio solo perché con problemi di salute o con disabilità che ne provocavano il rifiuto da parte della famiglia.

Allo stesso modo erano rimasti inalterati i grandi saloni (dette “le sorveglianze”) in cui i bambini venivano raggruppati. Montessori aveva osservato come i bambini, appena finito di mangiare, si gettassero per terra, raccogliendo le briciole di pane e mangiandole. Lo stanzone era completamente vuoto, un grande spazio spoglio e freddo. Quello di quei bambini non era desiderio di cibo, ma di poter interagire con qualcosa, perché quegli avanzi di pane erano le uniche “cose” a loro disposizione.

Lo stesso vuoto di oggetti e di attività è ancora rilevato da Ammaniti, il quale constata come i bambini del manicomio non siano capaci di giocare e di interagire con gli altri, per cui attiva una serie di iniziative volte a restituire loro l’infanzia. Egli ricorda addirittura una analogia con i lager nazisti, dove i bambini vivevano in uno stato di passività e degradazione (pp. 154-155), e constata soprattutto come trent’anni di democrazia non avessero minimamente scalfito quella situazione indegna. Forse anche perché Montessori era stata completamente ignorata dalla pedagogia italiana e, ancor più, dai decisori politici.

Prima della legge n. 517/1977 nell’intero Paese ben 300mila bambini venivano allontananti dalle famiglie e “ricoverati in istituti di assistenza, di cui gli ospedali psichiatrici erano l’ultimo anello della catena” (p. 64), ma quella emarginazione era solo l’ultima fase di un percorso che iniziava dalle classi differenziali e dalle scuole speciali, le quali avevano raggiunto una numerosità assolutamente abnorme.

Le conclusioni di Ammaniti sono molto amare: i bambini continuano a essere l’anello debole della società e la riprova si è avuta nel periodo del lockdown legato alla pandemia, durante il quale ai bambini era vietato addirittura uscire sul marciapiedi davanti a casa.

Per questo occorre leggere anche il libro dal titolo E poi, i bambini, pubblicato nel 2020, perché la denuncia di Ammaniti è caduta nel silenzio più assordante.

Purtroppo nel nostro Paese si continua a ritenere che i dati statistici siano “freddi numeri” che non dicono nulla a chi voglia occuparsi di scuola. Non a caso il rapporto annuale del Censis non è mai stato oggetto di analisi e riflessione da parte non solo di insegnanti ma anche di dirigenti scolastici, e, forse, di figure direttive di livello ministeriale. In realtà il problema sta nel “far parlare” questi dati, ma anche nel disporre di un retroterra di studi scientifici che permettano di attribuirvi significato.

Gli studiosi citati da Ammaniti continuano a essere riferimenti validi, senza dimenticare però le ricerche più recenti, in particolare nel settore delle neuroscienze. Essere convinti che i bambini dispongono di un cervello che necessita di essere sviluppato adeguatamente è infatti il primo passo per realizzare un’inclusione davvero efficace, perché fondata sul riconoscimento di ciò che accomuna tutti gli esseri umani.

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