L’istituzione di commissioni d’indagine e inchieste esplorative non è infrequente nella storia della scuola italiana. La decisione del ministro Giuseppe Valditara di farvi ricorso, nominando un gruppo di esperti per una valutazione sull’attualità ed efficacia delle Indicazioni nazionali, rientra in una prassi che ha molti precedenti. Le azioni ricognitive in previsione di assumere una decisione politica o amministrativa sono in genere legate alla necessità di disporre di un quadro realistico della quotidianità scolastica. Non sono mancate ragioni meno nobili, come la creazione di commissioni al puro scopo di prendere tempo e nascondere la difficoltà a maturare una decisione.



Diversi sono stati gli esiti delle inchieste e delle commissioni. In alcuni casi (in specie tra Otto e Novecento) i lavori delle commissioni pianificarono importanti scelte politiche, ma più spesso (specie nel secondo Novecento) restarono allo stadio di proposta, i cui testi sono oggi confinati in tomi di cospicua mole d’interesse erudito che giacciono impolverati sugli scaffali delle biblioteche.



L’analisi di questo particolare aspetto della vita nazionale risulta per ora appena abbozzato (con l’unica eccezione dell’ampia ricostruzione dell’inchiesta Scialoja a cura di Luisa Montevecchi e Marino Raicich e gli studi sulla Commissione Gonella di chi scrive), limitato per lo più alla pubblicazione di qualche testo significativo e a qualche riferimento a margine della genesi di specifici eventi. I documenti delle commissioni, sia quelli elaborati in corso d’opera sia quelli conclusivi frutto di laboriose discussioni, offrono invece spesso un quadro molto più realistico della temperie politico-scolastica di un determinato periodo di quanto non appaia nei documenti ufficiali.



Mi limiterò a qualche sondaggio esemplificativo. I primi 50 anni del Regno furono segnati da un gran numero di inchieste e commissioni investigative. Il fervore indagatore è facilmente spiegabile con l’urgenza di conoscere la multiforme realtà dell’Italia appena unificata su cui operare per assicurare omogeneità a un sistema scolastico imposto forzosamente a tutti gli ex Stati regionali, ciascuno dei quali vantava tradizioni proprie. Il ben noto fenomeno del cosiddetto ”piemontesismo scolastico” a vocazione central ministeriale era fortemente sponsorizzato non solo dai circoli politici anticlericali sabaudi, ma anche da autorevoli intellettuali meridionali esuli a Torino (Bertrando Spaventa, Francesco De Sanctis, Pasquale Stanislao Mancini) assai influenti negli uffici di via Po 47, dove allora aveva sede il ministero dell’Istruzione.

Accanto all’esigenza di assicurare il controllo ministeriale su ogni dettaglio organizzativo e culturale per assicurare un unico sfondo formativo, i governi liberali che si succedettero nei primi decenni dopo l’Unità ebbero anche un altro obiettivo, quello di contenere la presenza delle numerose scuole religiose che godevano di grande tradizione, erano spesso preferite dalle famiglie e, in una parola, facevano ombra all’istituzione statale.

Fu proprio per potenziare l’istruzione secondaria statale che il ministro Antonio Scialoja il 20 ottobre 1872 nominò una commissione d’inchiesta sull’istruzione secondaria allo scopo di raccogliere dati e informazioni sullo stato dell’istruzione media; l’inchiesta proseguì fino al 1875, documentando una condizione di diffuso malessere e di mediocre qualità dell’insegnamento in specie nell’ambito della scuola liceale. L’inchiesta fu minuziosa, raccolse una grande quantità di materiali e di opinioni e giunse alla conclusione che se si voleva contare su un ceto dirigente patriottico, competente sul piano professionale, occorreva incrementare gli sforzi dello Stato, preparare in modo adeguato i docenti, promuovere una visione laica della vita e limitare gli spazi delle libertà d’insegnamento pur chiaramente prevista dalla legge Casati.

Le raccomandazioni degli esperti nominati da Scialoja si tradussero gradualmente in atti legislativi ed amministrativi che rafforzarono il sistema delle scuole statali, impegno nel quale si distinsero soprattutto alcuni ministri della sinistra liberale a lungo al vertice ministeriale come, per esempio, Francesco De Sanctis, Michele Coppino e Guido Baccelli.

Un’altra commissione che diede un forte impulso allo sviluppo scolastico, in questo caso nel settore elementare e contro l’analfabetismo, fu quella del 1910 promossa da Camillo Corradini, direttore generale dell’istruzione primaria e popolare. L’inchiesta riprendeva tematiche e problemi già anticipati dalla relazione stesa nel 1896 da Francesco Torraca, allora capo gabinetto del ministro Emanuele Gianturco, che affrontava i problemi della scuola elementare in relazione alla difficile situazione finanziaria dei comuni. I lavori della Commissione Corradini arricchirono con ampiezza di dati e con il confronto con la legislazione scolastica degli altri paesi europei le proposte di Torraca, rappresentando il principale punto di partenza per l’elaborazione della legislazione riformatrice varata nel 1911, ministro Luigi Credaro. Nella relazione compilata a commento dei dati raccolti, Corradini richiamava l’attenzione sulle profonde disparità intercorrenti tra le diverse realtà scolastiche delle varie regioni, denunciava l’incapacità dei Comuni di far fronte alla carenza di strutture, alle inadempienze  in materia d’istruzione obbligatoria e all’elevato tasso di analfabetismo.

Minore fortuna incontrò invece un’altra storica commissione – la Commissione Reale, insediata dal ministro Leonardo Bianchi nel 1909 – il cui scopo era quello di riordinare il sistema scolastico, semplificando e unificando soprattutto i corsi inferiori dell’istruzione secondaria e potenziando l’insegnamento scientifico e delle lingue straniere. Accusata da alcuni autorevoli studiosi del tempo (Giovanni Gentile, Gaetano Salvemini) di voler smontare il rigore e la tradizione classico-umanistica disegnata dalla Casati, la Reale non godette di buona stampa grazie all’attivismo dei suoi avversari, si trascinò per qualche tempo e i lavori finirono nel quasi totale silenzio poco prima dell’inizio della guerra, quando il clima culturale generale era ormai profondamente mutato in senso nazionalistico.

Trascorsa la stagione fascista, le cui decisioni verticistiche non avevano bisogno di esplorazioni preliminari, l’avvento della Repubblica coincise con l’istituzione di una delle due più importanti Commissioni attive nel secondo dopoguerra, purtroppo entrambe con esiti molto inferiori alle aspettative di chi le aveva promosse: la Commissione/Inchiesta Gonella (1946-1950) e la Commissione d’indagine dello stato della scuola italiana (1964-1968) i cui lavori incrociarono il lungo ministero di Luigi Gui.

Nella transizione post fascista Gonella volle coinvolgere i docenti nella creazione della scuola democratica coerente con i principi costituzionali. Il disegno di legge che ne scaturì al termine dei lavori, dopo molte discussioni e contrasti in specie sul ruolo e finanziamento delle scuole non statali, non ebbe nemmeno l’onore della discussione parlamentare e finì prematuramente in un cassetto. Furono soprattutto gli insegnanti a restare in maggioranza indifferenti all’iniziativa, anteponendo al posto del progetto di una pur apprezzabile riforma il miglioramento degli stipendi, nuovi concorsi, l’abbattimento del diffuso precariato e interventi sull’edilizia scolastica.

Destino analogamente negativo toccò, vent’anni più tardi, alla Commissione d’indagine creata nell’ambito della politica di centro-sinistra con l’obiettivo di dare compiuta attuazione ai princìpi che, poco prima, avevano sorretto l’avvio della scuola media unica. Ma le lungaggini delle discussioni, i contrasti ideologici, l’irruenza dell’incipiente sindacalismo confederale e la protesta studentesca vanificarono gli sforzi degli studiosi chiamati a ordinare il futuro della scuola democratica e a trasformare il “piano Gui” (esito dei lavori degli esperti) nel segnavia dello sviluppo della scuola di massa e di una università meno di élite. Miglior fortuna avevano invece avuto le numerose commissioni, in genere di breve durata, formate da pochi esperti di fiducia ministeriale, che si erano susseguite tra il 1955 e il 1960 alle quali si deve il superamento del concetto di elementarità per l’espletamento dell’obbligo e la scelta della scuola media unica aperta a tutti gli alunni in età 11-14 anni.

Le vicende più recenti sono largamente note. Oltre ad altre più circoscritte iniziative commissariali (per esempio sulla fattibilità della riduzione da cinque a quattro anni del ciclo secondario superiore), i due tentativi più ambiziosi di ricorrere alla consulenza di esperti si svolsero a cavaliere del secolo scorso e dei primi anni di questo. Nel 1996 il ministro Luigi Berlinguer si avvalse di una commissione ristretta di studiosi per una radicale revisione del sistema scolastico nazionale e a seguire, ma in una prospettiva politica del tutto diversa, per quanto affine sul piano del metodo, anche il ministro Moratti si avviò, nel 2001, per una via analoga, con risultati in entrambi i casi non adeguati alle aspettative.

Il progetto di far crescere un’“altra scuola” dal basso con la partecipazione dei docenti si rivelò uno scoglio insuperabile per le contrapposizioni ideologiche, la scarsa adesione dei docenti e organismi professionali (non solo sindacali) in grado di mobilitare e condizionare le scelte del decisore politico, la complessità incomparabilmente superiore alla capacità di dominio da parte di un gruppo di esperti scelti anche tra i più qualificati, le resistenze esplicite ed implicite che agiscono, talvolta imprevedibilmente, nella vita politica.

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