Sono un vecchio professore universitario. Ho iniziato a frequentare scuole, dall’altra parte della cattedra, a 21 anni. Allora si poteva, bastava essere iscritti all’università e fioccavano le supplenze. Ho cominciato con una media alla periferia di Milano. Porto con me il ricordo di quei ragazzi di Cambiago più di qualsiasi altra esperienza. Ricordo il loro odore, i loro occhi, le loro noie, i loro ardimenti, perfino quella ragazzina che vidi scrivere sul parabrezza posteriore della mia utilitaria, che condividevo con mio padre, un “ti amo” gigantesco. Ripeto, avevo 21 anni. Ricordo soprattutto i loro occhi. Perché erano proprio i loro occhi a comunicarmi se avevano studiato e come avevano studiato e soprattutto a dirmi come io avevo spiegato Foscolo, Leopardi o Verga. Tanto devo a quei ragazzi.



Quei miei primi alunni mi son tornati in mente nei giorni scorsi, quando ho visto l’immagine di quella ragazzina bendata davanti al computer. Per carità, non voglio enfatizzare la vicenda o gettare la croce addosso alla professoressa che ha fatto tale scelta. Le cose bisogna conoscerle fino in fondo per giudicare. E nemmeno alzare gli scudi sul disagio della piccola. Per chi è cresciuto giocando a mosca cieca, avere una benda sugli occhi è cosa da poco. Ma vista così, nell’immobilità di un fotogramma, quella bambina mi è parsa più una prigioniera dell’Isis che una fanciulla tremante davanti alle domande della prof. E la cosa mi ha dato fastidio. Perché, mi sono chiesto, coprire proprio la parte più espressiva di una persona? Perché annullare quegli occhi dai quali un bravo insegnante coglie ogni moto del cuore e del cervello?



I miei studenti del terzo anno sono ventenni svegli. Discutendo con loro dell’episodio, hanno messo a fuoco immediatamente la questione, ponendo il problema del mito, assai diffuso in questo Occidente senz’anima, dell’obiettività della valutazione, dell’algoritmo valutativo, della presunzione di decidere a prescindere dalla forza espressiva di uno sguardo. Mi si dirà che un conto è essere in presenza e un conto essere in Dad, che la mediazione digitale è così potente da rimescolare le carte in tavola e imporre nuovi paradigmi. Vero.

Tuttavia, proprio questi episodi dovrebbero innescare in una sana comunità pensante ed educante, non tanto un’ondata di indignazione con relativa risacca, ma una riflessione non solo su quanto sta accadendo, ma soprattutto su quanto potrà accadere. Perché i sentieri percorsi non prevedono ritorni o ripensamenti e Meet o Zoom, o quant’altro, con le loro belle classroom, non scompariranno con lo scomparire del virus.



La questione, semmai, attiene allo spostamento dello spazio esistenziale del corpo dall’ambito della realtà a quello della virtualità, e soprattutto al suo riconoscimento e alla sua certificazione istituzionale, accompagnata da una retorica di sistema che fornisce elementi di persuasione e perfino di mitizzazione, che ha conseguenze di non poco conto sulle rimodulazioni antropologiche e culturali che ci caratterizzeranno nel prossimo futuro.

Non solo perché la necessità ci ha dimostrato quante convenienze comporta tale spostamento dal reale al virtuale, ma perché la nostra incapacità a resistere ai repentini mutamenti di stato ci spinge a convincerci, senza alcuna fatica, che ciò che ci sta capitando è perfino bello. Ci troviamo di fronte, in sostanza, all’azione sovvertitrice di quel “potere dolce” di cui parla Zigmunt Bauman in Babel, con “la sua capacità unica di riciclare le responsabilità come risorse: anziché imporre uscite monetarie (spesso proibitivamente elevate), porta ai detentori del potere lucrosi profitti finanziari; in realtà lubrifica i volani della nostra economia consumista. In effetti (…) siamo così oggetto di una manipolazione che non riusciamo ad avvertire”. Ecco che “le idee, complete della valutazione della loro proprietà e rilevanza, arrivano a me (o piuttosto sono contrabbandate e incorporate nella mia visione del mondo e cassetta degli attrezzi) già bell’e pronte: pre-selezionate e pre-interpretate. Questo mi mette fuori gioco come autore mentre allo stesso tempo mi abilita come attore – so come procedere, come agire per non provocare disturbo, per evitare la censura e l’esclusione sociale che probabilmente ne seguirebbe. Io continuo ad essere informato in ‘tempo reale’ degli ultimi spostamenti nel ‘discorso della città’ e nelle regole dell’unico gioco della città (la ciber-città, la città-www per essere precisi). Io sono – o almeno mi sento – sulla strada giusta”. In definitiva “con i legami interumani che quasi si dissolvono, con l’assenza stridente ed ostinata di un agente collettivo capace di coagularsi in soggetto collettivo di un’azione prolungata, il cambiamento in arrivo sarà prodotto da masse di ‘solitari interconnessi’”.

Bauman scriveva queste cose nel 2015. Nel frattempo, due anni più tardi, Bauman stesso sarebbe morto senza poter vedere il compimento, dopo un’inevitabile evoluzione, di quanto diagnosticato. Certo, già sei anni fa vi erano tutti i presupposti per un’analisi siffatta. La novità risiede semmai nella sua repentina storicizzazione con tanto di patente d’inevitabilità. Perché ammettiamolo: solo la realtà è capace di creare realtà. Nessuno ha voluto la nuova peste. Essa si è presentata autonomamente all’attenzione del mondo. Ma non v’è dubbio che essa, così reale e così elementare, ha costituito il reagente efficace di processi latenti. Ha provocato nuove forme di realtà irreale. Ha attaccato il corpo e il corpo si è ritirato dismettendo l’atavica pazienza. Già pronto, potremmo dire già allenato o persuaso, esso ha trovato, con il beneplacito del potere, le nuove forme della sua espressività collettiva.

In questa prospettiva, la nostra casa, trasformatasi in luogo di lavoro, in aula scolastica, in punto d’incontro con la corporeità eterea della nostra fidanzata che si muove sgranata dentro lo schermo di un computer, con la sala di un museo vuota e silenziosa, con una piazza all’altro capo del mondo, il tutto senza odori, senza sensazioni di caldo e di freddo, senza interazioni creative con l’ambiente che ci accoglie… la nostra casa – dicevo – si trasforma in un perfetto non luogo baumaniano individuato e descritto in Modernità liquida.

Basti pensare alle soluzioni escogitate da alcune università per gli esami a distanza, sempre mosse dall’ossessione dello studente che copia. In una hanno elaborato e applicato agli esami scritti un programma che rileva il movimento della testa del povero allievo, testa che deve restare fissa in un quadrato definito. Se oltrepassa il limite tutto si blocca e partono le verifiche dei cyberdocenti. In un’altra obbligano lo studente ad allestire un set con tre videocamere, una frontale, una alle spalle e una “panoramica”. Il che apre problemi giganteschi di privacy. Perché devo essere costretto a mostrare a tutti la mia camera, le mie cose. Lo spazio più privato diviene così messo alla mercé e, forse, anche alla berlina, di un pubblico giudicante che, non visto, magari filma o fotografa e poi posta.

Credo che questa sia una follia che deve indignare. Ma mi rendo conto che i giovani oggi sono presi da ben altre cose. La casa, in altre parole, ha sempre più assunto l’aspetto di un set in cui si succedono eventi organizzati e relative messe in scena. In molti hanno ironizzato sulle scenografie casalinghe, sulle librerie, sulle pareti migliori per un’auto-rappresentazione appropriata. Perché lo spazio del non luogo è innanzitutto lo spazio algido di un voler essere che niente racconta di ciò che realmente siamo. Tutto il nostro mondo conta in relazione alla capacità di ripresa della nostra telecamera.

A meno che, come è successo ad uno sprovveduto consigliere comunale piemontese in pausa durante la seduta on line del consiglio comunale, non ti porti il telefonino in bagno e ti fai riprendere mentre fai i tuoi bisogni (una delle poche cose reali su cui possiamo contare). Perché occorre sottolinearlo, il mix irresponsabile di luoghi e non luoghi può essere assai pericoloso. Lo strumento tecnologico e il suo accesso a bassissimo costo è quel che davvero rende diverse le due Orano camusiane, separate da poco meno di un secolo. Quella letteraria ha radici nell’antichità. Quella metaforica, che tanto ci appartiene, apre – come si è visto – nuovi scenari. Nella prima il corpo è martoriato. Nella seconda è trasformato. Nella prima il tempo è fermo. Nella seconda è nullo. Ed è proprio intorno al tempo che si gioca la battaglia decisiva che riguarda la consapevolezza dell’esistere. Perché se è vero che il tempo – come spiega Bauman – è il sistema di misurazione morale della nostra distanza da un luogo o da un’esperienza o da una persona, l’aver annullato il tempo nel passaggio da un luogo all’altro ha portato con sé l’annichilimento dello strumento necessario per la misurazione etica del nostro cammino verso. Ciò significa che è nell’attesa che si forma e si solidifica il giudizio sull’esperienza secondo i criteri del bene e del male.

La dimensione digitale, rendendo accessibile, ora e ovunque, senza la necessaria pausa essenziale al formarsi di un criterio di giudizio, ogni luogo esperienziale, lo rende sostanzialmente amorale, non valutabile eticamente. Il passaggio repentino da un luogo virtuale buono ad uno cattivo (per usare i consolidati metri di giudizio) fa di ogni viaggio un’esperienza troppo veloce per permettere il sedimentarsi di un criterio di giudizio.

Già Bauman in Babel aveva messo in guardia sull’intrinseca amoralità dell’azione digitale, secondo la quale il fatto stesso di essere possibile ne valida la positività etica. In questo frenetico passaggio, a colpi di clic, da un’esperienza all’altra, la corporeità si ritrova annichilita e confusa, derubata del liquido amniotico essenziale per esistere: la percezione adeguata del tempo che non solo passa, ma alimenta. Così i più giovani, i più piccoli, prima e meglio degli altri introietteranno i nuovi canoni della distanza (dalla scuola, dai maestri, dai nonni, dagli amici) come forma naturale di relazione, senza il tempo necessario, senza la pazienza dell’attesa, senza la messa in gioco di una corporeità che sempre più rischia di mostrarsi come superflua e senza storia.

Per questo credo debba essere lecito copiare, in questa dimensione altra. Semmai, al docente spetta il compito di insegnare al proprio allievo come copiare al meglio, citando magari il grande Fubini che sottolineava come la critica fosse l’arte della citazione. Mettere la benda agli occhi, spiare col grandangolo la stanza di uno studente, irrigidire la mobilità del viso in un quadrato dalle linee rosse, equivale a mescolare preoccupazioni analogiche a risposte digitali. L’effetto è quello del consigliere che tira lo sciacquone. Ma soprattutto non ci saranno più professori che ricorderanno con tenerezza una ragazzina che scrive “ti amo” su un parabrezza inzaccherato.

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