“L’atteso non si compie e all’inatteso un dio apre la via”. Il poeta Euripide, nel quinto secolo avanti Cristo, ci aveva ammoniti circa l’imprevedibilità del futuro. Ma, quando giunge l’inatteso, la paura scuote gli animi. Ciò nonostante, durante il lockdown primaverile, abbiamo maturato la consapevolezza che stavamo vivendo un momento storico. I possibili esiti mortali della pandemia non hanno solamente provocato sperdimento (si veda la crescita del consumo di ansiolitici), ma hanno avuto anche una risonanza benefica, offrendo un principio di realtà, a lungo occultato sotto le pieghe dei consumi e dei comfort di quella che Ricolfi ha definito come la “società signorile di massa”.
Ma adesso, dopo che il presunto “modello Italia” di gestione della pandemia, sospinto in accelerazione dalle retoriche politiche, ha urtato frontalmente contro il muro della verità, rivelando, a fronte della “seconda ondata”, la modestia di pensiero e di capacità organizzative, il sentimento di speranza è crollato. E i nostri stati d’animo sono opachi.
Anche nella scuola prevale un senso di sconforto. La didattica on line ha esaurito il suo momento “eroico”, quando rappresentava l’estremo tentativo di opporsi al vuoto scolastico. Adesso occorre l’adozione di tecniche realmente innovative, altrimenti, se essa si mantenesse come mera riproposizione on line delle lezioni di una volta, non funzionerebbe. Ma innovare prevede impegno e fatica, difficili da attuare in un contesto in cui la formazione dei docenti è progressivamente decaduta, per volontà congiunta ministeriale e sindacale. Essa, infatti, da obbligo strutturale e permanente (art. 1, comma 124 della legge 107/2015), dopo che la sua quantificazione oraria è stata affidata ai collegi dei docenti, è diventata sostanzialmente insignificante.
La scuola, così, sembra rivivere uno dei tanti cicli dei suoi ritorni al passato, quando il patto di governance dello Stato con i docenti era dato dall’equazione tra basso stipendio e poco impegno.
Sono state riproposte le graduatorie, ancorché in veste informatizzata. Ma il sistema non funziona. Ancora oggi, in alcune grandi città, non si è proceduto a nominare tutti i supplenti dalle Gps (graduatorie provinciali di supplenza).
Anche le procedure di immissione in ruolo ritardano e non solo a causa del Covid.
Sarebbe stato possibile agire diversamente? Certamente sì, affidandosi alle scuole e consentendo loro almeno la scelta dei supplenti. Ma graduatorie e immissioni in ruolo sono un ambito gestito in compartecipazione dalla burocrazia ministeriale e dai sindacati.
I professori, particolarmente nelle scuole superiori, con la didattica on line, lavorano meno delle 18 ore settimanali per le quali sono pagati. È naturale che sia così: se le lezioni durassero 60 minuti (così com’è tradizionalmente), gli alunni faticherebbero molto a rimanere seduti di fronte al monitor per 5/6 ore quotidiane. Ma i professori, pagati per lezioni di 60 minuti, dovrebbero recuperare il tempo ridotto. Anche il recupero sarebbe naturale, sì, ma sulla Luna o su Marte… Non nella scuola. Quello scolastico, infatti, è un mondo terrestre, dove sono circa 40 anni che un paio di circolari ministeriali (la n. 243 del 22 settembre 1979 e la n. 192 del 3 luglio 1980) negano l’obbligo di recupero, quando le lezioni sono ridotte per cause di forza maggiore. I sindacati urlano che ora più che mai siamo in uno stato di necessità: c’è la pandemia!
Ma il ministero, nella nota 2002 del 9 novembre 2020, invece, ha affermato che “il personale docente è tenuto al rispetto del proprio orario di servizio, anche (…) con gli eventuali recuperi”. Ed ecco, così, si è riattizzato il conflitto, ravvivando il fuoco di una guerra d’altri tempi.
Si poteva far altro? Certamente si poteva affermare, ad esempio, che il recupero vada effettuato sempre, anche se la riduzione derivi da situazioni di necessità. Soprattutto, una tale affermazione avrebbe dovuto avere un vigore normativo ben superiore a quello di una nota, per definire la questione una volta per tutte. Sarebbe occorsa una fonte normativa vera e propria, come un regolamento o una legge. In termini politici, sarebbero stati necessari volontà e coraggio: due condizioni rare, qui, sulla Terra.
Ma perché i sindacati difendono la possibilità di non lavorare? La leva stipendiale, con gli opportuni aumenti, è stata impraticabile, negli anni passati, per il numero eccessivo di docenti e per i rigori della finanza pubblica. Oggi non resta che l’altro versante su cui agire: quello dell’impegno. Per questo i sindacati sostengono che i recuperi non sono dovuti. Questa difesa, tuttavia, sospinge i docenti su un terreno pericoloso, quello della reputazione professionale, poiché un tale rifiuto crea una macchia. Se il prestigio professionale decadesse, poi, la conseguenza sarebbe quella di rendere poco credibili le richieste di aumento stipendiale.
Per questo noi presidi viviamo stati d’animo disagevoli: siamo vuoti di carburante e con lo sguardo offuscato. Ancora attendiamo, ma con poche speranze.