“Scrutinio” deriva da “scrutare”. Rimanda alla modalità medioevale di espressione del voto in sede di capitolo, sala in cui i monaci si riunivano una volta al giorno per leggere un capitolo della Regola e per eventuali discussioni. Il clima era quello del silenzio: la parola era soppesata, limitata all’essenziale e il voto veniva formulato con un semplice cenno del capo, raccolto con uno sguardo dal monaco designato.
Anche ora, negli attuali scrutini scolastici, una delle massime espressioni della collegialità docente, gli sguardi si incrociano. Ma – a parte il clima non sempre composto – ciò accade per ben altre finalità, ossia per la ricerca della disponibilità di qualche collega a cedere quel mezzo o quarto di punto che permette di arrotondare il proprio, in una sorta di libero mercato della valutazione, dove ognuno – sovrano nel proprio ambito disciplinare – si dichiara disponibile a cedere o scambiare quanto ha in eccedenza al collega che ne è privo. La collegialità poi si esprime al massimo quando, al termine delle attribuzioni di punteggio più importanti, quelle delle varie materie, con grande celerità (avendo nella maggior parte dei casi già sforato i tempi, con i colleghi fuori dalla porta che aspettano di entrare per la nuova seduta) si arriva a quella del cosiddetto “comportamento”. E qui il gioco degli sguardi incrociati si fa molto vivace: la proposta iniziale di voto è mantenuta solo se nessuno inizia a storcere la bocca o il naso, lamentando che “però con me il ragazzo disturba, chiacchiera e si distrae un po’ troppo” o che c’è stato quell’episodio che non può cadere così nel dimenticatoio. Tutt’al più la discussione si accende quando qualcuno osserva che però il ragazzo nelle proprie lezioni o in determinate circostanze è stato particolarmente partecipe. Ma nella maggior parte di casi la cosa finisce lì, ossia non si approfondisce il perché di questi diversi riscontri.
Ora, con la Dad o Ddi che dir si voglia, il tema del comportamento sta diventando particolarmente centrale. Molti docenti si sono trovati infatti spiazzati, venendo meno le usuali modalità di gestione della lezione e del controllo nel contesto dello spazio fisico dell’aula e della dimensione del gruppo classe. Ora è più difficile tenere l’attenzione e più facile per i ragazzi eclissarsi. Cambia anche tutto il setting di insegnamento/apprendimento: spazio virtuale e gruppo composto da tante singole individualità, che adesso si palesano appunto così, in piccoli riquadri distinti all’interno dello schermo, nella configurazione tecnicamente definita wall. Da un lato ci si può nascondere di più; da un altro si è tutti (docente compreso) molto più esposti. Ci si vede anche di più per quello che si è, addirittura nello sfondo domestico, della propria quotidianità e delle proprie abitudini. E paradossalmente, proprio per la distanza fisica, l’aspetto relazionale e la cura di ciascun ragazzo diventano decisivi per la tenuta e il contenuto stessi dell’intervento didattico.
In generale come si sta rispondendo a questa nuova realtà? A seguito dell’emanazione da parte del ministero delle Linee guida e delle indicazioni per le attività di Ddi e di attuazione dell’ultimo Dpcm, molte scuole si stanno dotando di una propria specifica regolamentazione. Tutti possono divertirsi con una piccola ricerca su internet. Basta inserire la voce “comportamento nella didattica a distanza” e subito compaiono esempi di integrazioni ai regolamenti di istituto ed elenchi delle regole di buona condotta e rispetto della privacy da seguire: collegarsi almeno un minuto prima in modo da essere già pronti e non disturbare connettendosi in ritardo; tenere il microfono disattivato per evitare rumori di sottofondo; stare composti e attenti, con atteggiamenti e abbigliamento decorosi (non in pigiama, spettinati), ecc., ecc. In più documenti, alle regole sono collegate le sanzioni da applicare in caso di trasgressione e il richiamo a quella più pesante, ossia al voto negativo di comportamento, che ormai “fa media” e può quindi pregiudicare la stessa promozione. Il sito Studenti.it invita infatti a stare attenti per non inimicarsi i professori, comportandosi davanti allo schermo come se si fosse in classe.
Ora, se da un lato appare sicuramente giusto richiedere forme corrette di comportamento, dall’altra è importare capire che c’è in gioco ben di più della “disciplina” cui lo studente deve sottostare affinché l’insegnante posa svolgere indisturbato il proprio lavoro. In questa fase di Dad si apre una vera e propria opportunità. Quella di mettere al centro dell’azione didattica la formazione a tutto tondo della persona, con un cambio di sguardo e una attenzione educativa: considerare i riquadri dello schermo non come un “muro”, ma come tante finestre aperte che permettono di entrare in rapporto con ognuno, per accompagnarlo ad una assunzione consapevole delle regole, in termini di autonomia e responsabilità. È palese infatti come sia del tutto inadeguato – se non ridicolo – il cercare di riprodurre a distanza le solite modalità del lavoro in classe e la focalizzazione dell’intervento didattico unicamente sulle competenze culturali e tecniche di indirizzo. L’esperienza della Dad evidenzia il passo che il nostro sistema di istruzione e formazione deve fare in termini di capovolgimento di paradigma, assumendo come centrale e in modo fortemente integrato nel curricolo personale dello studente la cura e lo sviluppo delle dimensioni personali o Non Cognitive Skills (Ncs) accanto a quelle cognitive. Qualcuno ci sta provando. Ha visto la strada. Ma il quadro normativo è confuso e la scuola in genere è ancora molto distante e sguarnita di strumenti. Il sistema rimane ancorato a tutt’altro, anche in termini di impianto valutativo.
Chiudo con una eloquente esemplificazione. In un istituto superiore di secondo grado di Torino si è chiesto a realtà esterne alla scuola (università e mondo del lavoro) di dare una propria valutazione sugli studenti usciti dalla scuola circa quelle dimensioni o competenze personali ormai comunemente ritenute strategiche come team work, problem solving, comunicazione efficace, ecc. I risultati hanno restituito un quadro in buona parte capovolto rispetto a quello documentato dai voti di comportamento attribuiti dalla scuola: il profilo di alunno che per quest’ultima è ritenuto buono e ottimo non lo è all’esterno di essa, nel mondo reale. E il problema non sta nel fatto che la scuola non sviluppi le dimensioni personali. Paradossalmente il problema è che invece nella stragrande maggioranza dei casi lo fa, implicitamente, inevitabilmente, replicando a circuito chiuso uno stile e un modello d’essere più passivo che proattivo, quello dello studente magari ben ordinato e disciplinato, ma poi in difficoltà al di fuori delle mura scolastiche. La scuola (liceo compreso) “professionalizza”, ma ancora, troppo spesso, sulla base di un modello autoreferenziale, consolidando la paura della risposta sbagliata e dell’errore invece del buttarsi e del rischiare, del trovare soluzioni nuove, confrontandosi e misurandosi con gli altri. In modo tra l’altro completamente divergente rispetto alle finalità previste dall’ordinamento e magari dichiarate nei vari Ptof o piani disciplinari di docenti.
Forse sarebbe davvero il caso di iniziare a riflettere seriamente su quali dimensioni del profilo “personale” e “professionale”, oltre che culturale dello studente si sta effettivamente operando, su quale spazio è loro assegnato sul piano valutativo, sul dove e come ciò avviene o può avvenire.