L’anno scolastico è entrato nella sua fase finale e prima di immergermi nel ritmo vorticoso degli adempimenti finali, nel calendario fitto degli scrutini, nel lento scorrere degli esami, negli immancabili monitoraggi e nelle conseguenti verifiche sono tentato di riguardare questo periodo, dal mio punto vista particolare, senza la pretesa di generalizzare. Una sorta di riflessione ad alta voce, come si riesce a fare a volte tra amici colleghi, per cercare insieme di approfondire e di capirne di più.



Un anno iniziato con le “grandi manovre” del rientro in classe, dopo mesi di chiusura e con gli occhi smarriti di una ragazzina, a ridefinire le giuste priorità, e quasi concluso con gli occhi bendati di un’altra ragazza: in mezzo cosa c’è stato? E cosa ci aspetta?

Nel mezzo è di certo mancata quella, un tempo deprecata, “monotonia” della scuola, la certezza e l’uniformità degli orari e del ritmo delle lezioni. C’è stata ancora tanta didattica a distanza, per singolo alunno, a gruppi, a classi, a interi plessi, a istituti, a paesi, a tutti escluso qualcuno, a metà, a tre quarti e a varie percentuali. E ancora ce ne sarà, chissà per quanto.



C’è stato il guardare gli alunni più come “positivi” e “contatti stretti”, dati da inserire in continue rilevazioni e complicate piattaforme, piuttosto che come bambini e ragazzi con il grande bisogno di essere accompagnati a crescere e a comprendere la realtà.

Ci sono state e continuano ad esserci ansie, preoccupazioni, paure di genitori, e anche dei docenti, ciascuno con un particolare “diritto” di volta in volta sacrosanto, giusto, originale, quasi mai consapevole della complessità di un disegno comune.

È stata introdotta l’educazione civica con la sua originale natura di “insegnamento” trasversale, con monte ore e tanto di valutazione intermedia e finale. In corso d’opera è stata cambiata la valutazione intermedia e finale alla scuola primaria e nel secondo ciclo, infine, il “curricolum dello studente”.



Insomma, l’invito a “non stare mai tranquilli” non ha avuto bisogno di un grande impegno morale; qualcuno al ministero, o si preferisce la realtà, ci ha pensato.

Quello che ci si prospetta non è di certo più rilassante. Di definito ci sono gli esami di Stato che ancora una volta decreteranno il successo della quasi totalità dei nostri studenti. Segnale del superamento degli scompensi di apprendimento che si sono generati in questi mesi? Mah! Di certo segnale di un rito, costituzionalmente imposto, che la pandemia ha disarticolato e sulla cui utilità sarebbe ora di ripensare.

Ciascuna scuola potrà cavarne con un intelligente uso dei dispositivi il rilievo del protagonismo degli studenti e tentare di leggerne lo sviluppo della personalità che è andata reagendo con gli insegnamenti e gli apprendimenti.

Per il resto ci si attende di sapere come andrà chiuso quest’anno. Taluni sperano in un “todos caballeros” come lo scorso giugno (ed è facile intuire chi), talaltri stanno affilando i coltelli per un “redde rationem” altrettanto preoccupante. La già ricordata benda sugli occhi è prodromica a questa seconda opzione.

Seconda opzione che trova le sue ragioni, oltre che nell’astrarsi dalla realtà dell’apprendere di tanti, troppi, studenti durante le fasi di Dad, nel non voler riconoscere i diversi connotati della medesima realtà di taluni docenti, appassionati dello studente “ripetente” (concetti e nozioni), più che dello studente che riflette e fa sua la conoscenza. Con tutto quello che ne consegue in termini di didattica. “Bisognerà giocarsela!”: e lo dico a me stesso.

Li incontro tutti ogni giorno nel lungo corridoio della “scuola media” quelli che si stanno trovando a mal partito. Sono, almeno nella mia scuola, tutti di una certa fascia di classi e tutti, chi più chi meno, hanno radici in un contesto che non ha investito in una vera relazione educativa. Sono sostanzialmente soli, sebbene quasi sempre ben curati, coccolati e con monopattino al seguito. Per la verità qualcuno ha accettato, qua e là, la compagnia di qualche docente. Di quelli che non fanno mettere la mascherina sugli occhi.

È mancata però la continuità, in quest’anno, per questa “marcatura stretta”. Eh sì, la cura educativa ha bisogno della fisicità dello stopper della difesa a 5 all’italiana che, incollato al centravanti (genio classicamente ribelle), quando non arriva sulla palla lavora sugli stinchi (metaforicamente, sia chiaro!). Stinchi che fuor di metafora sono quelle competenze che fanno il carattere, costitutive della persona e che hanno bisogno del famoso “villaggio” per prendere consistenza. Quelle competenze che le quarantene e le interruzioni hanno messo a dura prova, proprio perché anche il villaggio è stato disarticolato.

Si stanno misurando le quote di conoscenze perse in questi due anni scolastici. Qualcuno le dà per ormai definitivamente perse. Di certo occorrerà rimboccarsi le maniche per riconnettere quanto meno gli assi portanti delle strutture dei saperi fondamentali (e qui le buone pratiche di ciascuna scuola hanno bisogno di un disegno più ampio e di supporti ben definiti: continuità del servizio, trasporti, organici adeguati e loro copertura completa ai primi di settembre, spazi ulteriori, valorizzazione dell’intero sistema di istruzione…), ma sarà altrettanto necessario rilanciare il protagonismo dei ragazzi come personalità presenti, attive e consapevoli, riattivarne le energie e condividere l’inevitabile fatica.

Solo con un carattere ben saldo e in buona compagnia si parte per una grande impresa (e l’apprendere è una grande impresa). Ci sono, certamente anche gli esploratori solitari che proseguono imperterriti anche attraverso le peggiori condizioni, ma una scuola inclusiva non può accontentarsi di loro e soprattutto non può rassegnarsi a sacche di noia e indolenza.

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