Da molti anni il Sussidiario mi chiede di formulare degli auguri e di fornire una serie di suggerimenti ad ogni nuovo ministro dell’Istruzione, università e ricerca che entra in carica, il dodicesimo in circa vent’anni (dodicesima legislatura, Giancarlo Lombardi, ministro nel governo Dini, gennaio 1995). Il ministro Fioramonti è già presente a viale Trastevere come viceministro dalla fine dello scorso anno, e quindi è probabilmente consapevole dei molti problemi del sistema formativo italiano, che sono in pratica sempre gli stessi non solo dal 1995, ma da molto prima.
Se vogliamo riassumerli rapidamente, la parziale attuazione dell’autonomia, di cui ricorre quest’anno il ventesimo anniversario, lo scollamento fra scuola e formazione professionale, un rapporto precario con il mercato del lavoro, di cui sono esemplare espressione le vicende dell’alternanza, la penalizzazione delle scuole paritarie all’interno del sistema nazionale di istruzione istituito nel 2000, ma mai adeguatamente finanziato, e infine, incombente su tutto, la questione del personale: non solo gli insegnanti, ma anche i dirigenti e gli amministrativi, cuore pulsante del sistema.
A proposito dei dirigenti, che dovrebbero garantire la tenuta dell’intero sistema e l’attuazione di un servizio efficace ed efficiente, oltre che equo, senza peraltro poter scegliere i propri collaboratori. L’ultimo concorso, bandito nel 2017 e giunto a conclusione, fra ricorsi e controricorsi, solo poche settimane fa, segna chiaramente la totale inadeguatezza dei meccanismi di reclutamento. In nessun paese, che io sappia, si fa la formazione dopo l’assunzione: i requisiti formativi vengono tenuti presenti, o tassativamente richiesti, al momento della selezione, che il più delle volte non viene fatta centralmente, ma su base locale, in due modi diversi: le scuole propongono una rosa di candidati in possesso delle caratteristiche richieste, e l’ente finanziatore (nel nostro caso lo Stato) sceglie il migliore, o viceversa. Se si mantiene l’assegnazione centralizzata, bisogna tenere conto del fatto che il carico previsto varia anche di molto a seconda del tipo di scuola, delle dimensioni, della localizzazione. Il 55% dei 1984 dirigenti entrati in servizio (che il numero abbia reminiscenze orwelliane?) lavorerà fuori sede, ed è presumibile, oltre che comprensibile, che cercherà di tornare vicino a casa il più presto possibile.
Queste considerazioni valgono pari pari per gli insegnanti. Non prometta, ministro Fioramonti, di risolvere una volta per tutte il problema del precariato: in cinquant’anni non ci è riuscito nessuno, e la “Buona Scuola” del 2015, che ne aveva fatto il suo cavallo di battaglia, da quel cavallo è caduta rovinosamente. Servirebbe una politica formativa che, superando il limite della legislatura, varasse un piano di ampio respiro articolato su tutto il percorso (formazione iniziale, reclutamento, carriera e formazione permanente), abolendo di fatto e non solo sulla carta gli automatismi delle graduatorie, così da assicurare alle scuole e alle famiglie dei professionisti competenti, e anche adeguatamente pagati, cosa impossibile se continua l’attuale modalità dei todos caballeros. Ma mi rendo conto che le opposizioni a un simile progetto sono fortissime.
Un aspetto positivo nelle dichiarazioni del ministro è l’attenzione all’istruzione superiore e alla ricerca, cenerentole del sistema italiano rispetto alla maggioranza dei paesi europei. I dieci punti presentati in un post di Facebook l’11 marzo scorso (per elencarli sinteticamente: preruolo e reclutamento dei ricercatori universitari, progressione di carriera verso il docente unico, diritto allo studio, dottorato di ricerca e anagrafe degli accademici, governance, accesso alle università. Lauree abilitanti e specializzazioni di medicina, aumento di un miliardo per il finanziamento di università e ricerca, ripartizione perequativa di risorse e personale, semplificazione, trasparenza, autodisciplina e valutazione) affrontano problemi reali dell’istruzione superiore. Si potrà e si dovrà discutere sul merito (io ad esempio temo un ritorno del centralismo e un abbattimento dell’attenzione alla qualità), ma non si può sottovalutare un settore cruciale per lo sviluppo e la competitività del paese, in cui attualmente formiamo eccellenti ricercatori, con un costo per le finanze pubbliche che si aggira mediamente sui 300mila euro per ogni dottore di ricerca, e poi li esportiamo senza alcun vantaggio per l’Italia.
Come viceministro, Fioramonti si è occupato anche delle Accademie e delle Afam in generale, che potrebbero costituire, adeguatamente supportate e con una valorizzazione della collaborazione fra stato e privati, un’eccellenza del nostro sistema altamente apprezzata all’estero. Mi auguro che questo interesse venga potenziato.
Vorrei suggerire (si parva licet…) alcune cautele al ministro. Le dichiarazioni sui social hanno un chiaro e legittimo scopo di comunicazione e propaganda, ma nel momento in cui chi le fa diventa ministro sono un boomerang: così l’idea pittoresca ma non veramente proponibile di tassare le merendine e le bibite (“microtasse di scopo”), che richiederebbe per raggiungere i tre miliardi una tale diffusione delle medesime da suscitare un conflitto con il collega alla Sanità, che giustamente si batterebbe per ridurre i consumi di due articoli dannosi per la salute (il ministro, laureato in filosofia con un dottorato in scienze politiche, ha certamente sentito parlare di “produzioni intrinsecamente conflittuali”).
Quanto alle “classi pollaio” ripetutamente ricordate, il numero massimo e minimo di studenti è normato dal ministero, ma è anche frutto di accordi internazionali, per cui le classi della primaria non possono superare i 26 alunni, quelle della secondaria di primo gradi i 27 e quelle della secondaria di secondo grado i 30. Nella primaria, la dimensione media europea è di 21 bambini, quella italiana di 19; nella secondaria di primo grado di 22 contro 21. Infine, immaginare di realizzare entro l’anno i dieci punti sull’università è certamente irrealistico: sarebbe già un’ottima cosa se entro questo termine si arrivasse ad individuare le priorità, affrontandole poi una per una.
Fra i nodi su cui mi sembra opportuno che il ministro sviluppi una riflessione articolata, citerei infine l’autonomia: poiché egli stesso dice che i suoi figli frequentano una scuola tedesca, potrebbe essere utile un confronto con una situazione in cui la scuola è di competenza dei singoli Laender, non centralizzata, con una flessibilità che consente di tenere conto delle differenze ambientali. Naturalmente, per evitare di scadere nell’anarchia, un potenziamento dell’autonomia va di pari passo con una valorizzazione della valutazione, che soffre di frammentarietà (i compiti dell’Invalsi vengono sistematicamente modificati, il legame con le altre due “gambe”, ispettori e Indire è poco organico, la professionalità dei valutatori è precaria).
Se devo chiudere con un auspicio, mi viene in mente una citazione che ho letto recentemente, di cui non ricordo la fonte, in cui un uomo diceva “mi sono lamentato di non avere le scarpe, finché non ho visto un uomo senza piedi”. Spero, e lo dico senza ironia alcuna, che le politiche educative tengano finalmente conto di una visione strategica di tutto il sistema, e non si riducano, ancora una volta, a fabbricare scarpe per un uomo senza piedi.