Ospite ieri del Meeting di Rimini, il ministro Valditara ha accettato di rispondere alle domande che un nutrito gruppo di esperti e stakeholder, moderati dalla giornalista Sara Di Carli, gli ha rivolto. Di per sé il confronto con il ministro rappresenta un fatto positivo, anche perché non sempre la politica si dispone al dialogo e adotta un atteggiamento di accountability, che dovrebbe invece caratterizzare tutti coloro che gestiscono le risorse pubbliche, fruendo di mandati politici. Ciò è stato apprezzabile, tanto più che le domande hanno trattato numerosi ed eterogenei argomenti, ai quali il ministro non si è sottratto.



Il dibattito è partito dal tema dell’innovazione e Valditara ha illustrato la sua strategia, distinguendo tra un’innovazione tecnologica, che deve essere guidata, e un’altra di natura didattica, che nasce spontaneamente all’interno delle scuole. L’Ocse riconosce un’assoluta centralità alle innovazioni scolastiche, che sono ritenute essere il volano degli stessi cambiamenti sociali ed economici. Tuttavia, se esse coinvolgono una parte rilevante dei docenti e delle scuole, che il ministro ha descritto giustamente con parole calde, non dovrebbe essere trascurata la restante componente, ahimè maggioritaria, di coloro che rifiutano qualsiasi cambiamento, per motivi più o meno accettabili.



Non vorrei essere rattristante, ma la realtà va affrontata complessivamente e con franchezza. Innovare comporta impegno e fatica e non tutti i docenti sono disposti a questo. Se l’apprezzamento per ciò che molti fanno, in termini di dedizione e creatività, è doveroso (e Valditara non è stato parco di attestazioni), occorre tuttavia affrontare il tema della resistenza al cambiamento, cui dietro segue il corteo, questo sì triste, dei risultati Invalsi e della dispersione. Anche le indagini internazionali, purtroppo, divergono dall’ottimismo volitivo del ministro, quando denunciano, sine ira et studio, alcuni magri risultati della scuola italiana.



Non è dunque corretto eludere le problematiche, perché la coscienza delle difficoltà è il solo viatico per giungere all’approdo desiderato. Dovrebbe essere predisposta una strategia complessiva, poiché non sono certamente sufficienti le sperimentazioni, seppur di alcune centinaia di scuole, a offrire le indicazioni necessarie al decremento della dispersione, particolarmente nel Centro-Sud Italia. Soprattutto, sperimentare non significa in automatico aumentare il numero dei docenti, anche perché nella maggior parte delle scuole non solo non esistono le cosiddette classi pollaio (perlopiù un’invenzione giornalistica, smentita da qualsiasi dato effettivo), ma anzi si registrano gli effetti del decremento demografico, aumentando il numero dei docenti in rapporto a quello degli alunni. La quantità dei docenti, infine, non corrisponde mai alla loro qualità.

Qui si apre il tema della formazione, sia di coloro che si apprestano a svolgere la professione sia di quelli che sono già di ruolo. Una delle domande, rimasta inevasa (a mio avviso), è stata quella relativa ai percorsi universitari per i futuri docenti, la cui valutazione è affidata al sistema universitario stesso e che sottovaluta la pratica di apprendistato interna alle scuole. Neppure sono state pronunciate parole di chiarezza sulla formazione dei docenti di ruolo, alcuni dei quali, come è risultato anche dagli esempi del ministro, pur essendo “pozzi di scienza”, non dispongono di alcuna capacità empatica nel porgere il loro sapere. La formazione, obbligatoria secondo la legge sulla “Buona Scuola”, dovrebbe essere accolta semplicemente perché ciò accomuna i docenti a tutte le altre categorie professionali.

Forse più che pensare agli incentivi per la formazione, la quale rappresenta un mezzo per il miglioramento lavorativo, si dovrebbe pensare a una premialità per la qualità professionale raggiunta, che ne costituisce il fine. Certamente un tale riconoscimento economico solleciterebbe l’impegno di formazione dei singoli. Ma anche in questo caso l’ostilità sindacale si dispiega con aggressività, perché una tale incentivazione potrebbe costituire il primo passo verso l’introduzione di forme di carriera.

Purtroppo il ministro non ha parlato di governance delle scuole, sebbene molte domande evocassero una tale riflessione. Nessun riferimento ai decreti delegati del 1974, tutt’oggi vigenti e sostanzialmente confermati dal testo unico sulla scuola (DLgs 16 aprile 1994, n. 29), i quali rappresentano un handicap evolutivo per le scuole stesse. Il tema, poi, si connette al valore generale dell’autonomia scolastica che, se adeguatamente sviluppata, potrebbe costituire il motore propulsivo del sistema integrato tra scuole statali e paritarie, cui apprezzabilmente il ministro ha concesso un adeguato spazio (indicando fra l’altro alcuni finanziamenti cui queste ultime possono accedere).

Apprezzabile il proposito di introdurre gli istituti tecnici superiori (Its), il cui grado di occupabilità per i giovani è elevatissimo, all’interno di un percorso che li connetta alla scuola superiore (la quale dovrebbe avere una durata di 4 anni). Altrettanto condivisibile è l’impostazione pedagogica che il ministro ha presentato, impiantata sulla “strana coppia” docente/alunno, dove il dialogo educativo e i valori della persona appaiono dominanti.

Innovativo, questo sì, l’intento di “aprire un tavolo” con le associazioni professionali dei docenti e dei dirigenti, perché a queste ultime compete la discussione sulle tematiche professionali, mentre i sindacati dovrebbero limitare il loro ruolo alle questioni del trattamento economico e delle condizioni lavorative.

Vorrei far presente, infine, che i dirigenti già si avvalgono, nei vari contenziosi, dei servizi dell’Avvocatura dello Stato, ma che quest’ultima non sempre riesce a farsi carico adeguatamente delle loro problematiche, anche per la mole di lavoro che deve fronteggiare.

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