Chiusura totale, unica soluzione?

Al momento in cui la valanga si è ormai distaccata dal pendio e precipita a valle sempre più veloce, è ozioso discutere se si possa rallentarne la discesa o deviarne il corso. L’unica soluzione, e neppure sempre praticabile, è quella di togliersi dalla traiettoria. E dunque, fuor di metafora, di chiudere le scuole per evitare che vengano travolte e diventino, con la massa dei loro numeri, fattori moltiplicatori del danno collettivo.



Eppure, di tutti i corpi sociali che mettono in gioco interessi comuni, la scuola è quella che ha lavorato di più e meglio durante la pausa estiva – quando il pericolo sembrava, se non svanito, quanto meno largamente sotto controllo – per preparare un rientro in sicurezza. E la scuola secondaria superiore, in particolare, ha molto operato sul piano organizzativo: orari di accesso, separazione dei percorsi, gruppi in presenza e gruppi a distanza, sanificazione, mascherine, distanziamento.



Per il primo ciclo si è scelto, giustamente, di privilegiare la didattica in presenza e quindi di lavorare sugli spazi – che in quel segmento non mancano, a causa della crisi demografica – e conseguentemente sugli organici, che sono stati arricchiti in modo sostanziale, anche se si sarebbe potuto fare di più. E dunque tutti a scuola.

Ma il secondo ciclo non ha spazi inutilizzati, o molto pochi: e quindi il distanziamento era possibile solo alternando, per gruppi, le lezioni in presenza e quelle a distanza. E tutto questo è stato organizzato ed ha sostanzialmente tenuto. Rispetto alla popolazione generale, quella scolastica, grazie anche alla maggiore resistenza immunitaria dei suoi protagonisti, è quella che ha tenuto meglio. E non sarà neppure inutile ricordare oggi la previsione formulata da chi scrive oltre un mese fa: che non ci sarebbe stata una fuga dei docenti “fragili” dal proprio posto di lavoro. Sembrava una scommessa azzardata, ma si è rivelata giusta.

Dove sta allora il nodo che ci ha condotti, ancora una volta, a chiudere le scuole superiori, prima per tre studenti su quattro e poi, dopo appena una settimana, per tutti?

La risposta sta in una constatazione solo apparentemente banale: la scuola non è una monade sociale, che si possa isolare dal contesto. La scuola mobilita quotidianamente quasi nove milioni di studenti, oltre un milione di personale e, indirettamente, circa quindici milioni di genitori. Almeno un cittadino su tre è coinvolto nel suo funzionamento. Ma non basta: a scuola bisogna andare, il più delle volte con i mezzi pubblici, che hanno rappresentato in questa circostanza il vero tallone di Achille. Insomma, il contagio può avvenire ovunque: sui luoghi di lavoro dei genitori, sugli autobus e le metropolitane sovraffollate, nei bar e nei luoghi di pubblico ristoro. Ma poi, dovunque sia scoccata la scintilla fatale del passaggio da una persona all’altra, c’è una probabilità su tre che quella persona passi – direttamente o indirettamente – per la scuola: e che la scuola diventi il crocevia di smistamento di un’infezione che nasce altrove.

Se un errore è stato compiuto – ma sono stati molti di più – è stato quello di voler “riaprire” le scuole senza dedicare analoghi sforzi ed attenzioni ai sistemi sociali con essa interagenti, a cominciare da quello dei trasporti pubblici. Se pure si fosse fatto molto di più di quel che è stato fatto fra le mura scolastiche, l’aver sottovalutato il crogiolo che intanto sobbolliva fuori di esse si è rivelato fatale.

Né è da trascurare un altro punto debole nel sistema di prevenzione sociale. Il servizio sanitario nazionale, pur meritevole di encomio e riconoscenza collettiva, ha peccato per aver omesso di dimensionarsi in funzione del prevedibile ritorno di fiamma. Allentata la tensione della prima ondata fra maggio e giugno, non si è pensato ad alzare le dighe che arginassero la successiva: ci si è comportati come se la pandemia fosse sul punto di sparire da sola e per sempre. Quello era invece il momento di predisporre un sistema di tracciamento a prova di decine di migliaia di casi quotidiani e non di qualche decina; e quindi, a monte, di un sistema per i tamponi che potesse trattare in tempo reale fino a dieci volte i casi giornalieri, visto che ogni positivo – si è visto – è potenzialmente veicolo per almeno dieci contatti. Non si è pensato a predisporre e moltiplicare i “drive in”, o come li si voglia chiamare, per far sì che un tampone non richieda una fila di dodici ore ed un’attesa di quattro giorni (quando va bene) per la risposta. Tutto tempo durante il quale il “non ancora positivo” può interagire nella comunità e trasmettere eventualmente il contagio.

Insomma, almeno altri due punti deboli del sistema complessivo hanno contribuito all’esito che oggi osserviamo: i trasporti – che non si sono saputi dimensionare, cioè almeno raddoppiare la propria capacità di accoglienza – e la sanità, che ha funzionato come un collo di bottiglia troppo stretto per la pressione che si andava generando a monte. E tutto quello che non è riuscito a passare per quella strettoia è fluito intorno e si è diffuso a macchia d’olio. Come un fiume in piena, che – se non trova bacini di contenimento e scolmatori di deflusso – abbatte gli argini e dilaga nei campi e nelle città.

Ma a pagare, oggi, è solo la scuola: e con essa il diritto all’istruzione – che poi è il futuro diritto di cittadinanza – di milioni di giovani. La scuola viene chiusa, invertendo ancora una volta la priorità fra la rincorsa degli effetti e la ricerca e rimozione delle cause.

Si poteva/si potrà fare diversamente?

Indicare l’origine dei malanni è un esercizio molto praticato, ma raramente utile, se non se ne trae alimento per cambiare i comportamenti futuri.

Per quanto riguarda quel che non ha funzionato in sanità e trasporti, si è già detto: ma non sarebbe impossibile immaginare rimedi adottabili già adesso, senza aspettare che tempi migliori maturino da soli, senza far nulla per favorirne l’avvento.

Per esempio, non si può non rilevare che il settore dei trasporti privati è stato abbandonato alla crisi più nera, appena e insufficientemente mitigata dai sussidi. Mentre avrebbe potuto diventare parte della soluzione anziché del problema: coinvolgendo bus privati ed anche – perché no? – taxi e NCC in un sistema di alleggerimento del trasporto pubblico. Il denaro bruciato in sussidi comunque insufficienti e a fondo perduto sarebbe stato un investimento, certo non bastevole da solo, ma comunque parte di un disegno in positivo, anziché dell’ennesimo approccio “distruggi e risarcisci”.

Un altro esempio? Il clamoroso fallimento della celebrata “App Immuni”, legato essenzialmente alla sua volontarietà ed alla possibilità che scetticismo, negazionismo e giochi di ruolo delle regioni ne minassero i presupposti di funzionamento. Ci si è trincerati dietro una tutela della “privacy” che, stando alle specifiche ufficiali, non aveva neppure ragion d’essere, ma che ha comunque bloccato la sua diffusione. E si è voluta considerare questa supposta garanzia come più importante della salute, del lavoro e della vita stessa di decine o centinaia di migliaia di persone. Se “Immuni” può essere migliorata, la si migliori: non mancano certo intelligenze in grado di farlo. Ma poi la si renda obbligatoria, se necessario installandola d’ufficio tramite i gestori telefonici. Non si è forse arrivati a rendere legittima l’installazione clandestina di “trojan” per intercettare e spiare i cittadini oggetto di indagini, non per provare reati già commessi ma per permettere di individuarne di eventuali? E cosa impedirebbe allora di installare d’ufficio uno strumento che permetta di circoscrivere e tracciare in tempo reale e con margini di errore molto bassi i potenziali vettori del contagio? La libertà di tenere riservato il proprio stato di “positivo” è un diritto soggettivo la cui tutela renda lecito mettere a rischio decine di incolpevoli ed inconsapevoli cittadini?

E la scuola, in tutto questo?

Ma, per concentrarci sulla scuola, cosa si sarebbe potuto fare di diverso (non oso dire di più)? E cosa si potrebbe pensare di fare se, e quando, ci sarà spazio per ripensare al modo di riaprirla?

Fermo restando che la scuola “vera”, o almeno quella cui siamo abituati a pensare, è quella in presenza, del rapporto/scambio diretto fra docenti e alunni, è proprio impossibile pensare ad una didattica integrata – parte in presenza e parte in distanza – che sia diversa dalla semplice alternanza e dalla riproposizione della tradizionale lezione frontale, solo trasmessa su Internet?

Partiamo dalla prima questione: chi tenere a scuola? La risposta “ideologica” di questa fase è stata: in primo luogo i disabili e i Bes. Lo dice anche il Dpcm. Il presupposto è evidente: si tratta della fascia più debole, quella che meno degli altri può trarre vantaggio dalla didattica a distanza. Sì, ma: non si tiene conto che questa soluzione rischia di trasformarsi in una nuova forma di segregazione. Non solo personale e sociale, ma anche attraverso l’impoverimento del contesto didattico in presenza, riservato ad una platea di soli soggetti deboli. Un impoverimento duplice: da una parte per chi è in classe e che inevitabilmente finisce con il fornire lo standard cui il docente adegua la sua lezione; dall’altra per chi segue da casa, che si ritrova un messaggio meno ricco e vario che se fosse stato pensato e agito per la classe tutta intera.

Dunque, nelle future linee guida, che sicuramente non mancheranno di essere emanate (hai visto mai che il ministero rinunci ad insegnare ai docenti il loro mestiere?), non sarebbe male prestare un’attenzione maggiore alla composizione dei gruppi di volta in volta in presenza, rendendoli più vari e diversificati. E magari non rigidi nella composizione: una miscela variabile di intelligenze, emozioni, personalità è sicuramente più fertile di una fissa ed immutabile, quale che sia il criterio che ha presieduto alla scelta.

Una riflessione ulteriore: con rare eccezioni, la didattica a distanza attualmente consiste nella trasmissione su Internet della lezione svolta in classe per il gruppo in presenza. Nei casi più sofisticati, quando è il docente a lavorare da remoto (per esempio, se in quarantena), la lezione viene inviata alla Lim d’aula e gli studenti presenti la seguono. Sembra difficile pensare che non si possa fare di meglio.

Per esempio, e limitandoci volontariamente agli studenti delle superiori e preferibilmente degli ultimi tre anni. La didattica a distanza è, dal punto di vista fisico, una sorta di anticipazione della futura esperienza universitaria, nella quale – salvo che per alcune facoltà e per alcune attività – la frequenza non è obbligatoria e lo studente prepara gli esami per conto proprio, salvo seguire alcune lezioni o esercitazione chiave.

Perché non estendere il concetto e pensare ad una modalità che anticipi a livello secondario il modello universitario? Per esempio, traendo lo spunto da una formula di moda, quella della “flipped class”? Non è impossibile immaginare un modello in cui il docente, poco importa se in presenza o a distanza, introduca i capisaldi di un argomento e poi indichi i materiali su cui approfondirlo: non il tradizionale “studiate da pagina x a pagina y”, ma qualcosa di più stimolante, anche per il docente stesso. Una bibliografia, o – più propriamente – una sitografia, cui accedere da casa e su cui esercitare la propria curiosità e creatività. Il tutto seguito da una verifica formativa rapida e non convenzionale, in cui ogni studente venga invitato ad esporre le conclusioni cui è arrivato e il docente svolga il ruolo di una pietra di paragone: che approva o indica quel che manca, o quel che è errato, o prospetta scenari più ampi. Non interrogazioni a distanza, ancor più noiose di quelle in presenza: ma una sorta di rapidi dialoghi simil-platonici, a vocazione maieutica, che coinvolgano almeno cinque-sei ragazzi per lezione. E poi, a conclusione dell’unità didattica – o come si voglia chiamare un nucleo autoconsistente di argomenti – una verifica più tradizionale e complessiva.

Incidentalmente, una tale metodologia contribuirebbe a ridurre uno dei limiti principali delle attuali verifiche orali: quello di incitare alla riproposizione pedissequa delle parole dell’insegnante o del libro di testo. Stimolare a produrre, a “dire la propria”, incentiverebbe lo spirito di iniziativa e la fiducia in se stessi, oltre a sviluppare l’autonomia nel metodo di studio.

Uno dei punti deboli della didattica a distanza, soprattutto nei tecnici e nei professionali, sono le esercitazioni di laboratorio, in cui tradizionalmente si ritiene che “si apprenda con le mani”. Si tratta di un paradigma da sottoporre a verifica. Intanto, non è detto che l’esperienza di laboratorio debba essere contemporanea per tutta la classe: può coinvolgere gruppi a turno. Poi, occorrerebbe verificare se, ed in quale misura, l’esperienza diretta possa essere accompagnata, arricchita e ridotta nella durata dalla disponibilità di video ben realizzati, che guidino passo passo i discenti. Anche qui sorregge l’esempio degli studi universitari, in cui certe esercitazioni “critiche” vengono svolte, del tutto o propedeuticamente, mediante simulatori di realtà virtuale. E non leggiamo quotidianamente di operazioni di micro-chirurgia invasiva condotte ormai, nella realtà clinica, da robot guidati a distanza da un operatore che lavora su un video? Non si tratta di ipotizzare un livello di sofisticazione così elevato, ma fra il “tutto con le mani” ed il “tutto con la realtà virtuale” ci saranno pure un certo numero di soluzioni intermedie.

Certo, the media is the message: in una scuola largamente svolta a distanza, alcune abilità saranno più sollecitate e si svilupperanno di più che in passato, mentre altre diventeranno meno essenziali. In una nuova puntata delle telenovela “conoscenze vs. competenze” è probabile che, nel breve termine, le prime segnino dei punti supplementari. Ma non escluderei che, in prosieguo, la necessità di elaborare in prima persona quel che si apprende e il come si apprende finisca per rivelarsi il vero generatore di competenze che fin qui la scuola non ha saputo inventare, se non al livello minimo dell’addestramento manuale.

Un’altra ricaduta indiretta di questa stagione anomala potrebbe essere l’avvio di una riflessione, sempre dichiarata necessaria, ma mai praticata nei fatti, sui “saperi fondamentali”. Finora la selezione effettuata è stata brutalmente cronologica: si svolge il “programma” (non si chiama così, ma quasi tutti continuano a pensarlo e praticarlo come tale) fin dove si arriva, poi si comincia a correre e poi ci si ferma dove si è arrivati. Con la conclusione ovvia che le unità didattiche collocate per ultime in ordine di tempo ogni anno vengono compresse o abbandonate, non per una scelta consapevole circa la loro rilevanza, ma per una sorta di ineluttabilità di fatto. Perché si parte sempre pensando di avere tanto tempo e poi si arriva con il fiato corto.

Essere costretti fin dall’inizio a programmare il lavoro per tempi più brevi e con gruppi che ruotano potrebbe sospingere i docenti a ripensare su quel che è realmente essenziale e su quel che può essere sacrificato o messo in secondo piano, magari per destinarlo ad approfondimenti con i più brillanti o i più motivati. Non una scelta imposta dal calendario primaverile, ma un progetto che nasca fin dall’inizio sulla base di un ripensamento dei mezzi a disposizione. Non è una conseguenza automatica, ma spesso l’eterogenesi dei fini ha prodotto mutazioni ritenute impensabili fino a poco tempo prima.

Ancora: soprattutto nelle discipline lato sensu umanistiche, ma non solo, l’asse concettuale nello sviluppo della didattica è sempre stato quello cronologico, finendo con il porre quasi sullo stesso piano argomenti che sono veri e propri snodi del sapere universale ed altri che sono tessuto connettivo, importante per gli specialisti, ma molto meno per lo studente “medio”. L’essere costretti a scegliere favorirebbe, in una certa misura, l’adozione di un approccio “tematico”, per nuclei concettuali chiave, quelli su cui far ruotare il cerchio delle conoscenze e le connessioni inter-disciplinari. Fantascienza? Chissà.

Non sarebbe la prima volta che uno stato di necessità favorisce lo sviluppo di modi di pensare e di operare nuovi, che poi generano a loro volta dei “salti” in avanti del pensiero. E chi scrive, che ne ha viste tante, non riesce a credere che i nostri docenti, quei tanti che sono davvero degni del nome, non saprebbero reinventarsi e reinventare il proprio modo di essere e di lavorare. Se un vincolo esterno finisse con il diventare più forte della routine che avviluppa e addormenta il lavoro nelle condizioni ordinarie.

So bene che i docenti non sono tutti così: ma molti, più di quanti la narrazione prevalente non dica, lo sono. E quanto agli altri, temo che non cambierebbero comunque e non farebbero in nessun caso la differenza. Legenda nigra e legenda aurea sono da sempre rappresentazioni concorrenti e parallele della stessa realtà: ma, sul lungo periodo e negli snodi critici delle vicende umane, è la seconda che fa la differenza.