La cultura del rispetto è un’ottica o forse una filosofia sposata da qualche tempo dal nostro Ministero dell’Istruzione (e del Merito) al fine di prevenire qualunque tipo di violenza nella scuola, dal bullismo alla discriminazione di genere. Nelle Linee guida nazionali del 2015 (ministro Valeria Fedeli) stilate da un pool eterogeneo e alquanto competente di esperti, la forma prevalente di violenza presa in considerazione e in quanto tale da combattere è quella contro le donne. Si legge nel documento che “secoli di patriarcato hanno rappresentato le donne come naturalmente subordinate agli uomini, avvalendosi di dicotomie come quelle di mente/corpo, soggetto/oggetto, logica/istinto, ragione/sentimento, attività/passività, pubblico/privato e assegnando agli uomini le prime caratteristiche, alle donne le seconde”. Si ribadisce nello stesso documento che “ciò ha comportato nel tempo la riduzione delle donne a corpo, dominato dall’uomo e destinato alla cura esclusiva della vita. Alle donne è stata sottratta una dimensione pienamente umana, con conseguente esclusione dallo spazio pubblico, dall’esercizio della cittadinanza, dall’autodeterminazione e dalla libera scelta”.



La strada per uscirne è una sola: “Un’autentica educazione alla parità tra i sessi e al rispetto delle differenze si può realizzare declinando insieme uguaglianza e differenza, prendendo le distanze da una neutralità dove maschile e femminile perdono consistenza e ricchezza, ma anche respingendone i modelli stereotipati”. Tali modelli stereotipati si nasconderebbero soprattutto nel linguaggio (fondamentale nella didattica), per cui “si sostiene l’uso della sola forma maschile dei titoli che indicano ruoli istituzionali o professioni ritenute prestigiose anche se sono riferiti a donne, accampando giustificazioni inconsistenti sul piano linguistico”.



Ecco quindi la soluzione: “Nella pratica didattica si suggerisce quindi di verificare l’adeguatezza del linguaggio usato nei libri di testo di tutte le discipline non solo per quanto riguarda la presenza di eventuali stereotipi del maschile e del femminile, ma anche per quanto concerne l’uso del genere grammaticale, che costituisce uno strumento fondamentale per la rappresentazione della donna nel linguaggio”.

Il Piano nazionale per l’educazione al rispetto emanato dal MIUR nel 2017 (“Rispetta le differenze”) riprende alcuni degli assunti precedenti entrando più esplicitamente nel merito della didattica. Si procede all’apertura del portale noisiamopari.it, realizzato dal MIUR (e attualmente dismesso) per “raccogliere contributi, materiali didattici e proposte di nuovi percorsi formativi pensati per le insegnanti e gli insegnanti, per le studentesse e gli studenti e per le famiglie, con la finalità di avviare attività di contrasto agli stereotipi e alle discriminazioni”. Contestualmente si impegnano fondi: 5 milioni di euro a valere sul PON (Programma Operativo Nazionale) “Per la Scuola” 2014-2020 per la promozione e la realizzazione di iniziative sul tema della parità tra i sessi e sul contrasto del fenomeno del cyberbullismo, con il coinvolgimento di almeno 200 scuole. Il contrasto del bullismo e il cyberbullismo è il nuovo nome della cultura del rispetto.



A ottobre 2018 (ministro Bussetti) viene varata, in collaborazione con l’Università di Firenze, la Piattaforma ELISA, un percorso di e-learning dedicato ai docenti e ai dirigenti scolastici e nato per contrastare gli episodi di bullismo e cyberbullismo a scuola. Tale supporto informatico ha appunto lo scopo di dotare le scuole e i docenti di strumenti di intervento in merito al problema citato, per impedire il quale sono predisposte due azioni specifiche, che non prevedono oneri economici per i partecipanti: la formazione e-learning e il monitoraggio.

Quest’ultima azione, il monitoraggio, ha avuto tre fasi, l’ultima della quali si è svolta nell’anno scolastico 2022-2023 (ministro Bianchi). Di che cosa si è trattato? Della somministrazione a studenti e studentesse delle scuole primarie e secondarie di questionari online. Una successiva nota ministeriale informa che “gli episodi di prepotenza tra pari continuano a coinvolgere un numero considerevole di studenti e studentesse, soprattutto nelle modalità faccia a faccia. Infatti, il 26,9% degli studenti e delle studentesse ha riportato di essere stato vittima di bullismo nei 2-3 mesi precedenti la rilevazione (avvenuta tra maggio e giugno 2023)”.

Vediamo meglio di quale tipo di violenza stiamo parlando. Il 10,1% dei partecipanti al monitoraggio 2022/2023 ha dichiarato di aver subito prepotenze a causa del proprio “background etnico”; l’8,1% (di aver subito bullismo o insulti di tipo omofobico e il 7,4% di essere stato vittima di bullismo per una propria disabilità. La nota rivela, ancora, che “dal confronto tra i dati delle rilevazioni 2021, 2022 e 2023 emerge un trend in aumento di tutti i tipi di vittimizzazione e bullismo basati sul pregiudizio, che evidenzia, da un lato, i cambiamenti del contesto scolastico, sempre più multietnico ed inclusivo, dall’altro le difficoltà di alcuni studenti e studentesse ad accettare la diversità”.

Le ultime prese di posizione ministeriali a proposito dell’educazione alla cultura del rispetto, all’educazione alle relazioni e al contrasto della violenza maschile sulle donne concernono, per l’anno scolastico 2023-2024 (ministro Valditara), la realizzazione di progetti, percorsi educativi, attività pluridisciplinari e metodologie laboratoriali destinate, in particolare, agli studenti delle istituzioni scolastiche secondarie di secondo grado del sistema nazionale di istruzione. L’obiettivo indicato, e cioè il processo di maturazione educativa degli alunni attraverso la competenza degli adulti, si dovrebbe concretizzare in “gruppi di discussione coordinati da docenti”. Tutto qui? Pare di sì. Come spesso accade nella scuola di oggi, di fronte ad un quadro drammatico di tensioni e conflittualità tra gli alunni (a fare leva quantomeno sulle rilevazioni statistiche) si risponde con le poche armi che si hanno: consigli, progetti, procedure. La scuola appare sempre più come un ambito attraversato da forte disagio e sottili forme di violenza che si scaricano sui più deboli (talvolta anche sugli insegnanti). Non sarebbe il caso una buona volta di rinunciare ai piani calati dall’alto e mettere i docenti in grado di intervenire adeguatamente nella trincea del malessere, in modo che tale percezione si traduca in riscatto e positività? In altri termini, se c’è da combattere contro la discriminazione e il pregiudizio, qual è il soggetto da preparare per rispondere alla sfida? La burocrazia ministeriale o il docente adulto, capace di stabilire relazioni con i propri alunni? La risposta sembra ovvia, eppure pare che si ricada sempre nello stesso errore di inutile e dispendioso centralismo burocratico.

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