Davanti al doloroso scenario della guerra in Israele, provocata dall’eccidio di ebrei innocenti da parte di Hamas il 7 ottobre e tradottasi nei pesanti bombardamenti israeliani nella Striscia di Gaza, territorio palestinese controllato da Hamas, si affollano in chi ha a cuore il destino dell’umanità domande urgenti su come si possa ritrovare la via della pace e della convivenza tra i popoli in quella martoriata regione. Domande che nei più giovani sono anche di comprensione storica di una fase particolarmente intricata e articolata della contemporaneità.
Non è facile rispondere a tutti gli interrogativi relativi all’origine della questione israelo-palestinese (tra le più complesse di tutta la geopolitica del Novecento), né tantomeno stabilire tracciando una riga (di qua i buoni, di là i cattivi) chi abbia ragione o chi abbia torto in quel contesto, dimenticando che quel contesto è strettamente intrecciato al nostro. Non solo per le conseguenze (culturali, sociali, economiche) che i fatti che stanno accadendo nel versante orientale dell’area mediterranea possono avere su di noi. Ma soprattutto per le responsabilità che su quanto è accaduto e sta accadendo hanno avuto nel corso del secolo scorso alcuni governi occidentali nel periodo della decolonizzazione; rintracciare le quali può significare, oggi, crescere nella consapevolezza che varie possono essere le forme di partecipazione alla costruzione di una pace realistica.
Che l’altro sia un bene per me (di questo c’è bisogno nella reciprocità delle forme) non è infatti frutto di retorica moralistica, ma un compito che può essere praticato fin dalle nostre aule scolastiche e che si può in seguito trasformare in una identità arricchita e in una scelta di vita.
Se guardiamo alla storia della questione mediorientale ci accorgiamo, tra l’altro, che la categoria della guerra non ci appartiene, non appartiene ultimamente a noi esseri umani. La storia insegna che anche il Medio Oriente non è solo il teatro di tragedie ma anche di aperture improvvise, di inaspettate disponibilità dalle quali succhiare un goccio di speranza. La prima chiave interpretativa della guerra israelo-palestinese è proprio questa: la guerra non è la prosecuzione con altri mezzi della politica, come si diceva un tempo, ma l’interruzione di una prospettiva di dialogo in atto. Fino ad appena tre anni fa sembrava che la pace fra mondo ebraico e mondo arabo fosse possibile. Erano stati firmati, infatti, sotto l’egida degli Stati Uniti e del suo presidente Trump, gli accordi di Abramo (15 settembre 2020) tra Israele, Emirati Arabi e Regno del Bahrein. Tali accordi, a giudizio degli esperti, nascevano già fiacchi nella culla, a causa di talune forzature (Israele e gli Usa pretendevano di farne il punto di partenza per il riconoscimento unilaterale di Gerusalemme quale capitale di Israele). Ma erano pur sempre un tentativo di agganciare al meccanismo della normalizzazione delle relazioni arabo-israeliane l’Arabia Saudita, da tempo interessata a rapportarsi con l’Occidente in forme meno rigide e meno ideologiche di un tempo.
Sappiamo com’è finita: tutti siamo stati spettatori di come questo esile filo sia stato troncato da un attacco a Israele messo in pratica da brutali terroristi e sostenuto, pare, da poteri interessati a egemonizzare l’area (chi dice l’Iran, chi dice un fronte anti-occidentale più allargato), scatenando una prevedibile ritorsione che fungerebbe da ultima prova del presunto imperialismo occidentale.
Eppure, altri episodi dimostrano che il dialogo si può costruire anche tra “nemici”, a patto che si guardi all’interesse profondo del proprio popolo, più che alla coltivazione del seme dell’odio. Gli storici accordi di Camp David tra Egitto e Israele (settembre 1978) giunsero al termine di una contrapposizione bellica, la guerra del Kippur, nella quale le potenze attive nello scacchiere erano state, in qualche modo, tutte umiliate. Israele era stato colto di sorpresa dall’attacco di Egitto e Siria; queste due ultime nazioni furono sorprese e minacciate dalla capacità reattiva strategico-militare degli ebrei comandati da Moshe Dayan.
Dall’umiliazione si uscì quella volta nella convinzione che, come si scrisse, “il conflitto fra le parti e nel Medio Oriente non sarà risolto dalla forza militare, bensì attraverso mezzi pacifici”. Fu un errore probabilmente la scelta del compromesso bilaterale tra Israele ed Egitto, senza che l’intero mondo arabo fosse coinvolto. Ma l’Egitto era pur sempre la “porta” di tutto il mondo arabo. Il processo di pace confluì in quella storica stretta di mano tra il primo ministro israeliano Menachem Begin e il presidente egiziano al-Sadat sotto l’egida degli Stati Uniti che, allora, rivestivano la parte del protagonista nella composizione delle diatribe orientali, in modo più convincente dell’avversario sovietico al quale, pure, in molti avevano guardato fino a quel momento (Mosca, non dimentichiamo, aveva riconosciuto per prima la nascita dello Stato di Israele nel 1948).
I contendenti rinunciavano ad una porzione dei territori rispettivamente occupati, segnalando l’abbandono della ideologia della “terra sacra solo per la mia parte”. A Camp David fu messo in moto un programma di reciproco riconoscimento: l’Egitto (il presidente Sadat disse che per lo scopo della pace sarebbe andato anche in capo al mondo) riconobbe lo Stato di Israele; Begin riconobbe i “legittimi diritti del popolo palestinese”. Non era idillio, si trattava della tappa di un’ardua scalata. I palestinesi, illudendosi di potere ottenere tutto con la lotta armata predicata dalle formazioni resistenziali come l’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), rifiutarono gli accordi provocando di riflesso un irrigidimento dei coloni israeliani che incrementarono gli insediamenti nei territori occupati.
E tuttavia, ancora, la pace cercò di trarre dalla sua parte i contendenti negli anni Novanta, quando, dopo un lungo processo, sullo sfondo del quale si colloca il tracollo dell’Unione Sovietica e la guerra del Golfo (1990-91) provocata dall’occupazione irachena del Kuwait, che aveva visto l’OLP parteggiare per il dittatore Saddam Hussein, si giunse agli accordi di Oslo (1993 e 1995).
Sottoscritti dai vertici israeliani e dall’OLP, rappresentata da un indebolito Yasser Arafat, fissarono impegni di alto valore per le parti in causa, quali il principio dell’autonomia palestinese da parte israeliana e il riconoscimento di Israele da parte palestinese, compresa la rinuncia alla lotta armata. L’utopia dei due Stati per i due popoli, in una unica regione ebraico-palestinese, sembrava poter divenire una realtà, se non fosse subentrata una radicalizzazione dei due schieramenti a interrompere ancora una volta un itinerario di pacificazione.
Ora, senza addentarsi nel dettaglio degli eventi più recenti (dalle Torri Gemelle agli attentati islamisti in Europa, all’Isis e ora all’assalto di Hamas contro i kibbutz israeliani del 7 ottobre) e scontate le colpe reciproche, è inevitabile chiedersi il motivo di un così netto e violento impedimento ad ogni logica di dialogo.
Al di là di quelle che possono essere analisi più sofisticate, si possono estrarre dal quadro storico le seguenti coordinate di più ampio respiro: la logica della guerra ad oltranza o della guerra preventiva, posta la legittimità di uno Stato a difendersi se attaccato, non porta alcun frutto e semmai irrigidisce le posizioni, specie di fronte allo scenario delle vicendevoli distruzioni, deprivando di ogni ruolo attivo la grande diplomazia che è l’unica strada per giungere a qualche accordo. Esiste una parte del mondo (islamico radicale, soprattutto) che rifiuta la democrazia, ricollegandosi al culto della rivoluzione politica: l’islam o è politica o non è nulla, diceva Khomeini, autore della rivolta degli ayatollah in Iran, riecheggiando slogan di nichilismo materialistico tutt’altro che religioso.
L’alternativa che oggi si pone sotto gli occhi di tutti non è tra i presunti difensori degli oppressi (che in realtà agiscono per imporre un loro potere) e un Occidente relativista e privo di valori, ma tra chi afferma un senso dell’esistenza, qui e ora, e chi lo nega promuovendo una società nichilista e sottomessa. Tra queste righe è probabilmente nascosta, si spera in positivo, la risposta al dramma di oggi.
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