Ciò che ricorderemo della nostra scuola in questi mesi terribili saranno probabilmente i banchi con le rotelle e il rossetto luminescente del nostro ministro dell’Istruzione. Oh, venga il giorno in cui si possa finalmente ridere dei nostri ricordi e provare quello strano sentimento di nostalgia che pur accompagna anche i giorni più tristi. Insomma, ricordi levigati a puntino per potervi sopravvivere. E i più giovani (quelli che chiameranno nonna e nonno i nostri figli) che questi giorni non li hanno vissuti, penseranno a una barzelletta, che si ha voglia di scherzare, che si amano i paradossi. Perché loro saranno figli di una scuola che nemmeno si avvicina a quella lontana comica.
Impossibile credere che ci sia stato uno scontro tra chi voleva scuole aperte e chi chiuse, che il ministro le volesse assolutamente aperte e se le trovò chiuse, che quattro studenti su dieci non possedevano un computer o una connessione, che una significativa porzione dei docenti non sapesse usare adeguatamente un pc, che non si andasse a scuola anche d’estate, che si usassero parole strane come presenza e remoto o addirittura Dad… Saranno questi nostri pronipoti gli alunni di una scuola nuova, come quella che prefigura Giuseppe Bertagna in La scuola al tempo del Covid, in uscita in questi giorni per Studium? Chissà.
Intanto possiamo prefigurare possibili scenari leggendo le trecento pagine di Bertagna, intense ma scorrevolissime, in cui il docente di pedagogia generale all’Università di Bergamo e attivissimo ideatore di politiche scolastiche (sua la proposta originaria di riforma della scuola del ministro Letizia Moratti) ragiona sul presente e lancia una proposta di “cambiamento di paradigma” circa il rapporto tra politica e pedagogia, l’organizzazione della scuola, il ruolo della scuola in una società complessa e la stessa natura dell’insegnare e dell’insegnante.
Come accade in tutte le esperienze pestilenziali, con le pandemie vengono a nudo le nostre contraddizioni, ma vedono la luce anche le intelligenze, perché il virus non intacca soltanto i tessuti, ma scuote le menti, laddove esistono, innesca la loro creatività, permette di trovare, fuori dalle vie maestre infestate di infetti e di stupidi, percorsi laterali. E si sa, è qui che di solito i geni, ammesso che esistano, trovano le soluzioni.
Bertagna ripercorre questi nostri mesi quasi come in un diario “programmaticamente ed esplicitamente critico”, evidenziando, dal punto di vista della scuola, tutti gli errori, le discrasie, i danni di una buropedagogia che per perpetuare se stessa e giustificare la propria esistenza, diffonde le proprie ragnatele su ogni esperienza viva. Perché è la logica dell’in fila per tre che guida ancora la nostra visione educativa, mai discostatasi dal fascino perverso della caserma. Insomma, Pinocchio non è ancora diventato un bambino e, in questo magma di circolari e contro-circolari, non lo diventerà mai.
È innanzitutto dall’intreccio di politica e pedagogia che Bertagna prende le mosse, “in quanto ambedue le dimensioni hanno a che fare con il mondo del possibile da realizzare nell’essere storico-mondano del reale”. “L’ideale di questo rapporto – scrive Bertagna – sarebbe sempre quello teorizzato da Platone: che possa esistere una politica capace di essere davvero ‘tecnica regia (basilikè téchne)’, cioè in grado di far ‘trionfare ciò che è giusto attraverso il coordinamento e il Governo di tutte attività che si svolgono nella città’. Una politica che si fa paideia vera, giusta e bella, e viceversa, in altre parole”. Utopia.
Infatti allo scoppiare della pandemia “la politica del Governo sulla scuola, le altre politiche dell’opposizione” e “le pedagogie della scuola presenti nel dibattito pubblico si sono infilate in una logica autistica: ciascuna gridava a se stessa le proprie virtù”. E che dire del rapporto e della relativa immagine, tra politica e scienza? Altra questione cruciale che il Covid ha fatto emergere in tutta la sua debolezza. “Un’immagine e una concezione della scienza, in questo caso medica, e dentro di essa delle scienze mediche di alcune specializzazioni finora rimaste in ombra mediatica e di prestigio accademico, che avevano chiari retrogusti di epistemologia positivista. In questo senso, i pronunciamenti dell’Istituto superiore di sanità e del Comitato tecnico scientifico italiano obbedivano e volevano far obbedire i cittadini alla legge un po’ sbrigativa della Roma locuta, causa finita est”.
Attaccata a certezze obsolete nel clima di novità arrivato dalla Cina, la medicina ha così oscillato tra poli opposti balbettando, come lo studentello poco preparato ma deciso a non mostrarlo al suo esaminatore, le proprie certezze variabili, in nome di un canone accademico che fa acqua da tutte le parti e di una sé-dicente perfezione di principio. All’angolo, la politica con il suo nanismo intellettuale, s’è ridotta a certificare ogni dichiarazione programmatica, incapace di governare non solo i processi, ma perfino le opinioni.
Così, come già aveva evidenziato Camus nel cuore della sua Orano, “l’irruzione del Covid-19 balzato improvvisamente e imprevedibilmente fuori dall’angolo più riposto della casa, sotto forma di ospite inatteso, di straniero non familiare, di entità mostriforme che spaventa il padrone e lo spaesa (quasi una fotografia del perturbante di Freud), ha squarciato il velo dell’illusione e ha spinto governi e popoli, classe dirigente e dominata, colti e ignoranti a camminare come sonnambuli o come ubriachi sul ciglio dell’ignoto, istupiditi da un’immediatezza purtroppo non passeggera”.
E con lo sguardo retroverso alle certezze per autodefinizione perfette accumulate dalla medicina ieri, ecco che a fare le spese è stata innanzitutto la scuola, il magico regno dell’imperfezione che costruisce e della scommessa sul domani. “Trattati tutti da ‘allievi/alunni’ che si sente il dovere di ingozzare a forza, come oche per il fois gras, del massimo possibile di ingredienti culturali uguali per tutti” e guidati come pazienti in fase post-operatoria, indifferenti al grado di felicità che la situazione procura. Perché il malato, il soldato, il carcerato o l’operaio nella fabbrica fordista non devono essere felici, devono semplicemente obbedire e, ovviamente, per il loro stesso bene. In questa scuola alla prova del virus, in cui si è perfino rafforzato l’imperativo categorico di produrre cittadini obbedienti, l’unico risultato certificato è un caos in cui presenza e assenza, mobilità e fissità, realtà reale e virtuale hanno giocato, messi in campo i giocatori, ciascuno la propria partita come nella metafora di Karl E. Weick (Le organizzazioni scolastiche come sistemi a legame debole [1976], trad. it. in S. Zan, Logiche di azione organizzativa, il Mulino, Bologna 1988).
Eppure, sostiene Bertagna, quella della pandemia è stata una grande occasione (persa) di rovesciamento del tavolo, di sperimentazione, di libertà dagli schemi che già il virus ha fatto saltare (solo la buropedagogia non se n’è accorta). L’ipotesi, già avanzata a suo tempo, di una Scholé estiva in cui provare nuovi paradigmi antropologici e nuove esperienze di scuola da affinare e introdurre in una grande riforma filosofica e organizzativa della scuola in chiave personalistica, è stata inascoltata. Soprattutto è stata un’occasione di ripensamento di quegli oggetti di culto che hanno fatto della scuola un feticcio impolverato e sempre meno utilizzabile. Così risuonano, come risibile ombra di un passato partecipato, idee come meritocrazia, eccellenza, competenze eccetera, buone giusto per eccitare una ministra e i suoi discendenti.
Lasciamo fare ai piccoli, annota Bertagna. Loro il mondo, anche quello in-pandemico e post-pandemico, lo sanno reinventare: “Non ci si può toccare? Non per questo essi smettono di giocare: inventano il gioco del non toccarsi. Bisogna stare distanziati perfino tra amici per la pelle? Inventano un modo per farlo con reciproca soddisfazione. Starnuti e moccoli che colano sono pericolosi e da guardare con più sospetto di un tempo? Trovano un modo per starnutire e smoccolare in modi addomesticati e friendly. Ecco, sono le bambine e i bambini, ancora non condizionati, come tutti gli adulti, da dispositivi sociali e culturali consolidati che portano alla coazione inconsapevole, con la loro innocenza e creatività, ad insegnarci a fare quello che si faceva prima, ma a farlo in modo nuovo e diverso con gli stessi significati”.
Ricominciare dal piccolo sarebbe stata una grande scommessa. Valorizzare esperienze singole, maturate in ambienti liberi, proprio come una possibile Scholé estiva, in piccoli gruppi in cui la figura stessa dell’insegnante si modifica per contatto, in cui si poteva sperimentare e consolidare una nuova alleanza fra i tre orizzonti dell’orale, dello scritto e del digitale, poteva essere non solo una grande esperienza di nuova comunità pensante e agente, ma un modello per un ministro intelligente e illuminato, capace di invertire il rapporto di sudditanza della persona alla struttura. Ma per inventare una scuola, così come aveva fatto Gentile a suo tempo, occorre conoscere il mondo in cui si vive e passare dall’annusare l’odore delle scartoffie all’inalare l’odore della vita e della realtà.
In questa visione personalistica della scuola in cui ogni soggetto si sente protagonista della propria storia e della propria particolare eccellenza, valorizzata e condivisa come in un tutto interagente ai fini della crescita di ciascuno, con i propri talenti posti alla curiosità intellettuale e al servizio di tutti, la scuola si promuove a una vera esperienza di democrazia e di libertà, in cui perfino il valore legale del titolo di studio perde il suo senso. Si passerebbe, insomma, da una scuola-setaccio a una scuola-lievito in cui ogni persona possa scoprire e perseguire la propria personale eccellenza.
Il burocrate è l’unica persona al mondo che crede che fatta la Pietà da un cubo di marmo, si possa riportare la stessa al suo status originario. In questo non pecca di fantasia, benché stupida. Ed è proprio questa convinzione che rende inutile ogni pensiero creativo e vano perfino il genio di Michelangelo.
C’è un appuntamento che farà da termometro della febbre da parotite del sistema para-politico che avrebbe certo ispirato Alfred Jarry: l’utilizzo dei miliardi che arriveranno dall’Europa e su cui stiamo facendo forse troppo affidamento. l’Europa ci ha chiesto di fare il compito a casa: “Racconta come utilizzerai i soldini che ti vengono affidati”. Il componimento è stato consegnato, ma l’esito è stato un bel cinque. “Il Governo italiano – scrive Bertagna – nel presentare il 15 settembre le Linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza che avrebbe dovuto costituire la possibile mappa delle idee per sei progetti da action plan europeo da cui ricavare le ipotesi progettuali prioritarie da presentare all’Europa, ha dedicato alla riforma del nostro sistema di istruzione e formazione pagine e slide di insolita genericità, farraginose, un bric à brac detritico e, purtroppo, espressione delle solite idee mainstream che, sebbene con qualche diverso infiocchettamento, occupano da decenni i polverosi cassetti degli uffici e delle menti ministeriali”.
Per fortuna, dopo aver letto il componimento italiano, l’Europa ci ha offerto, seguendo le linee presentate da Francia e Germania, delle linee guida da seguire. Insomma, ci ha detto, fa’ come loro. Tornato al posto, il nostro Governo ritenterà. Sperando che non gli venga la tentazione di copiare, di riempire le slide di parolone prese a caso qua e là. Insomma, come si dice a Milano, di “intortare” il maestro.
Un consiglio: legga il Governo la proposta che fa Bertagna a conclusione del suo libro. Conclusione cui rimandiamo anche il lettore.