Chi insegna, e quindi chi educa, ha solitamente studiato sui libri dei grandi pedagogisti ed ogni anno la scuola lo incalza sull’aggiornamento formativo, sempre sacrosanto, per rimanere al passo con le novità, con la ricerca, con le variazioni generazionali, così da riuscire a capire, a comprendere, chi gli sta di fronte.
Ma per quanto ci si formi, per quanto si studi, la vita dell’insegnante deve poi attraversare la classe, passare tra le vite, spesso incrinate, a volte già spezzate, di decine di ragazzi e ragazze. E non passarci come si passa in mezzo alla folla di una piazza, ma soffermandosi su ognuno di quei volti che incontra e che lo interpellano, rallentare su quegli sguardi che pur apparendo distratti o svogliati, nascondono tante volte svariate forme di disagio.
È a quel punto che il docente tira fuori il suo bagaglio di conoscenze pedagogiche e didattiche, di studi su studi che dovrebbero sostenerlo nella gestione di questi giovani nel pieno della vita. Eppure molte volte egli si accorge di una mancanza, del fatto che non è sufficiente la sola conoscenza, ma che bisogna imparare a relazionarsi e la relazione è un rapporto che implica la conoscenza dell’altro. Ed ognuno è diverso, coi suoi talenti e suoi demoni.
Laura Giulian, docente ed educatrice, nel suo libro d’esordio Dal primo all’ultimo. Storie di ragazzi che si erano perduti e che sono stati ritrovati (Albatros, 2019), non propone certo un metodo, o quantomeno non lo propone nel modo a cui siamo abituati intenderlo.
Il testo è un carosello d’immagini, di vite di ragazzi che frequentano un professionale, tutti alle prese con la propria esistenza in repentino cambiamento: gli amori, le sfide, i confronti, i vuoti e le solitudini.
C’è quello che si avvia agli studi di ristorazione solo perché la madre ha un ristorante ben avviato, ma sarà poi davvero quella la sua vera vocazione? C’è Filippo, che un giorno prova una canna, e se ne innamora (amori devastanti), ma quella gli apre anche un buco dentro, dal quale riuscirà a venirne fuori solo grazie a una squadra di supporto, formata anche da insegnanti. Ci sono i due che rubano il tablet alla prof perché hanno visto che al suo interno c’è il logo di una nota azienda di e-commerce e sperano ci sia collegata anche una carta di credito così da fare acquisti a sbafo.
Per questi ragazzi, che s’incagliano tra le sabbie, attratti da sirene fuorvianti, l’autrice propone un metodo, dicevamo, che in realtà è uno sguardo: una pedagogia della misericordia.
Ogni pagina è percorsa da un fil rouge, da un modello parabolico, già preannunciato dal sottotitolo, quello famosissimo del padre misericordioso e di quel suo figlio, ragazzo, che volle andarsene da lui, salvo poi tornare pentito.
Ecco, proprio questo sembra proporci Giulian, uno sguardo misericordioso sull’alunno, senza velature di buonismo, ma davvero capace di cogliere nell’anima dell’altro un figlio che chiede aiuto a suo modo, anche sbagliando e arrabattandosi come può.
“A noi adulti viene chiesto di diventare ed essere padri e madri capaci di tendersi come un arco. […] A ogni padre e madre arciere viene chiesto di aguzzare la vista per indicare un orizzonte, per prendersi cura anche delle frecce più fragili nella faretra. […] La sfida degli arcieri di oggi è proprio quella di riportare dignità ed equilibrio tra le frecce”.
Un libro quindi che merita di essere letto, per provare ad osservare i ragazzi non solo dall’alto della conoscenza e del giudizio, ma anche per scrutarne i cuori e i drammi attraverso lo sguardo della misericordia, che, alla fin fine, è quella che tutti desideriamo.