“C’era inoltre nell’orientamento generale degli studi scientifici una bias teorica davvero eccessiva. Mancava quasi del tutto non solo la nozione di utilità, ma anche quella di pertinenza. Qualche correlazione fra imparare e vivere si asseriva a parole che esiste, ma di fatto nessuno se ne dava pensiero. Pareva inteso che vivere è cosa comunale, non occorre ginnasio-liceo”. (Luigi Meneghello, Fiori Italiani, 1976)



Nel suo bellissimo libro sull’educazione negli anni del fascismo (“avevo il senso di sapere soltanto il negativo della risposta, che cos’è una diseducazione”), Meneghello esprime più volte quello che era il nucleo del liceo: la totale separazione dell’educazione scolastica dalla vita quotidiana, tanto che negli anni Trenta e Quaranta gli studenti non si ponevano nemmeno il problema dell’utilità dello studio. Qualche decennio dopo, negli anni Sessanta, una lettura ideologica sosteneva la necessità di opporsi con tutte le forze a che la scuola si occupasse di qualificare per il lavoro, assumendo la natura di servostruttura della tecnostruttura, il che tradotto in termini più semplici, significava che sarebbe stata asservita agli interessi del mercato. Negli anni del boom, ci si accorse però che lo sviluppo economico e sociale richiedeva una maggiore qualificazione, in un Paese in cui il censimento del 1961 riscontrava un tasso di analfabetismo dell’8,3% (per la precisione, 6,6% per i maschi e 10,0% per le femmine) e solo dal 1962 la scolarità obbligatoria era passata da cinque a otto anni. Non volendo però rinunciare alla separazione fra otium e negotium, si coniò il termine di preprofessionalizzazione, che oltre ad essere privo di senso era quasi impronunciabile.



Vi risparmio gli sviluppi successivi, e mi limito a ribadire che per la sua iniziale natura elitaria ed accademica, la scuola italiana ha sempre privilegiato il liceo, relegando gli aspetti operativi ad alcuni indirizzi (gli istituti tecnici o professionali, la formazione professionale), considerati minori nei fatti, se non a parole, tanto che anche gli istituti tecnici si sono progressivamente adeguati al modello liceale, facendo prevalere la funzione di ponte verso l’istruzione superiore su quella di uscita verso il lavoro, e soprattutto convincendo di questo le famiglie. L’ipotesi di un modello professionalizzante di eccellenza va a cozzare con un pregiudizio radicato nella cultura e nell’opinione comune, pregiudizio che nell’università viene definito academic drift, ed indica la tendenza ad allineare ogni proposta formativa al modello accademico, considerato superiore, così che le persone preferiscono raggiungere il livello più alto possibile di qualificazioni formali, di dubbia spendibilità, piuttosto che apprendere competenze utili a risolvere problemi posti dal lavoro o dalla vita quotidiana.



Al termine della secondaria si è cercato di colmare il vuoto, in forma sperimentale e con stanziamenti inadeguati, avviando nel 1988-89 la filiera degli Ifts, poi modificata da successivi provvedimenti con un ruolo crescente delle Regioni, e infine istituendo – anche per un adeguamento alla normativa europea – gli Its, istituti tecnici superiori, costituiti come Fondazioni di partecipazione che comprendono scuole, enti di formazione, imprese, università e centri di ricerca, enti locali. Sono previste sei aree: nuove tecnologie per il made in Italy; mobilità sostenibile; efficienza energetica; tecnologie innovative per i beni e le attività culturali; tecnologie dell’informazione e della comunicazione; nuove tecnologie della vita.

Ma l’offerta continua a non essere adeguata alla domanda: pur con tassi di occupazione a un anno dal diploma che nel 2021 sono stati circa l’80%, nonostante le restrizioni e le difficoltà causate dalla pandemia (il dato è riportato nel sito dell’Indire, a cui è affidato il monitoraggio degli Its), permane una certa diffidenza verso questo canale non universitario. Il Pnrr prevede cospicui investimenti, dovuti al riconoscimento dell’importanza degli Its per colmare il disallineamento fra domanda e offerta soprattutto per le professioni tecniche, con l’obiettivo di un incremento consistente e di una sempre crescente interazione con la domanda, come l’Europa suggeriva già nel 2011. Si spera che entro le elezioni il governo riesca a varare il decreto relativo agli ITS e alla formazione continua, aiutando le imprese che investono in formazione permanente (forse il punto su cui il Paese ha il maggiore ritardo), aumentando la mobilità e l’internazionalizzazione, stimolando lo sviluppo di competenze imprenditoriali.

Ma il problema della formazione al lavoro non riguarda solo l’istruzione superiore: quando era ministro dell’Istruzione, Giancarlo Lombardi aveva coniato lo slogan “dalla mano d’opera alla mente d’opera” per indicare che ogni lavoratore doveva disporre di una formazione di qualità, che ne consentisse la partecipazione quale che fosse il suo livello di inserimento. Si deve pensare quindi a un riassetto complessivo, non solo a risistemare le carenze più evidenti, creando un percorso che consenta frequenti ritorni in formazione, sia per accrescere le proprie competenze che per modificarle, facendo fronte sia ai cambiamenti imposti dal modificarsi delle condizioni tecniche e organizzative del lavoro, sia a quelli desiderati dalle singole persone. Per questo lo spazio della formazione permanente, da sempre inadeguato per quantità e qualità dell’offerta, dovrebbe costituire l’aspetto centrale della progettazione, ancora più della fase iniziale.

Anche qui, è possibile individuare dei provvedimenti che non richiedono cambiamenti legislativi e potrebbero essere realizzati con le risorse disponibili in tempi brevi:

1. l’orientamento deve essere inserito in modo molto più organico nel tempo scuola fin dalla scuola primaria, valorizzando l’apporto di tutti gli insegnanti e delle attività laboratoriali, e utilizzando anche i canali esterni del tempo libero e delle attività di terzo settore (che tra l’altro sono spesso portate avanti da persone molto sensibili alle esigenze dei ragazzi);

2. gli attuali tre canali di formazione tecnico-professionali (formazione regionale, istruzione professionale e istruzione tecnica) vanno ridotti a due con un potenziamento del canale regionale, seguendo le indicazioni della commissione istituita dal ministro Moratti, sbrigativamente accantonate per una specie di assurda rivolta contro una presunta svalutazione del liceo classico (che lo scorso anno raccoglieva il 6,2% degli studenti);

3. lo spazio delle attività “miste” come l’alternanza scuola-lavoro va recuperato, anche se probabilmente rivisto e differenziato, fornendo sia alle scuole che ai ragazzi la scelta fra diverse vie possibili. In una delle molteplici proposte di riforma della scuola secondaria, la prima avanzata nel 1948!, si era elaborato un modello in cui gli spazi della formazione generale e di quella professionalizzante erano inversamente proporzionali, l’una calava e l’altra cresceva a seconda degli obiettivi in uscita previsti dai diversi indirizzi;

4. il fatto che la competenza primaria per la formazione professionale sia assegnata alle Regioni oggi rappresenta piuttosto un handicap che un vantaggio: le differenze di qualità sono inaccettabili, e difficili da sradicare per i troppi interessi localistici ad essa collegati. In attesa di un ripensamento globale, che potrebbe tenere conto delle reti di centri che funzionano bene e delle esperienze di eccellenza presenti in tutte le regioni, mi chiedo se non si potrebbe allargare il sistema di valutazione fissando standard più cogenti e collegando i finanziamenti ai risultati. Invalsi potrebbe fornire in merito indicazioni utili, come pure Inapp, che quando si chiamava ancora Isfol aveva raccolto moltissimo materiale su domanda e offerta di qualificazione a tutti i livelli, inclusa la formazione nel corso della vita;

5. La progettazione per competenze, nata inizialmente proprio in relazione al lavoro, è già ampiamente sviluppata nel settore della formazione professionale e potrebbe essere meglio strutturata ed “esportata” nelle scuole. La sperimentazione che sta conducendo la Fondazione per la Sussidiarietà sulle competenze non cognitive, o socio emotive, comprende anche tre Cfp e mostra che in termini di motivazione e ricadute sugli apprendimenti questo modello è estremamente promettente;

6. in questo settore la presenza di adulti con il ruolo di tutor, sia nelle scuole che nelle imprese, ricrea il rapporto fra maestro e apprendista ed è positiva sia per l’orientamento che per l’acquisizione di competenze. Servirebbe un profilo preciso, soprattutto per i tutor aziendali o per gli artigiani che accolgono i giovani in stage, con una normativa che consenta di compensare in qualche modo il tempo speso coi i giovani. Un progetto internazionale (“giovani imprese”) prevede ad esempio la valorizzazione dei lavoratori anziani o in prepensionamento, e si potrebbe riprodurlo;

7. Da ultimo, nel passaggio al lavoro, è fondamentale un buon sistema informativo, in due direzioni: per fornire ai ragazzi indicazioni sul tipo di lavoro con maggiori possibilità di occupazione o più vicino alle loro aspirazioni, e per fornire alle imprese indicazioni sulle qualità delle persone, che si possono migliorare investendo in formazione. Il primo tipo di informazioni esiste (si pensi alle indicazioni che vengono da Progetto Excelsior), anche se potrebbe essere diffuso in modo assai più capillare, mentre la valutazione che dà la scuola è poco affidabile e di scarsa utilità: l’esempio migliore è l’esame di maturità, che quest’anno ha promosso il 99,9% dei candidati, e in più è cambiato un numero insano di volte, per cui il peso dell’origine sociale resta determinante.

Con un migliore sistema di transizione fra formazione e lavoro, scomparirebbe quel terzo di professioni offerte che non trovano risposta? La risposta mi pare affermativa, anche se non è facile quantificarla, perché l’offerta di lavoro è influenzata da molti fattori sociali e culturali, le professioni “rifiutate” sono sempre esistite e con ogni probabilità continueranno ad esistere, ed è comprensibile che i giovani restino in attesa di un lavoro migliore, senza per questo essere accusati di neghittosità o di aspettative troppo elevate.

Compito della formazione, ancora una volta, non è quello di garantire che per ogni casella da occupare ci sia una persona da sistemare, ma quello di facilitare l’incontro fra i desideri e i bisogni individuali e quelli sociali. Gli esempi non mancano: manca forse la volontà di ascoltarli, come diceva Isaia anticipando di una trentina di secoli il concetto di echo chamber formulato dai comunicazionisti: “sono molti quelli che dicono ai veggenti ‘non fateci profezie sincere, profetateci illusioni’”.

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