La scuola sembra sia di nuovo diventata oggetto di particolare interesse da parte dei media. A distanza di qualche giorno sono intervenuti Galli della Loggia il 28 gennaio, D’Avenia il 31 e pochi giorni prima, il 22, sempre sul Corriere, Cristina dell’Acqua, con il bell’articolo “Gli studenti come le api, piccoli cittadini laboriosi”, in cui ha inviato un messaggio chiaro: non contano lezioni di contenuti, contano lezioni di umanità. Le life skills sono sì invisibili agli occhi, ma visibili nei gesti della vita adulta.



Durissimo sulle no cognitive skills invece Galli della Loggia, che le interpreta come strumenti, proposti perché la scuola smetta di essere il luogo dell’apprendimento e della formazione civile e culturale delle giovani generazioni e si trasformi invece in una generica agenzia dell’accudimento sociale con sempre più largo spazio di psico-medicalizzazione volto al controllo normalizzatore della personalità dei suoi allievi. Orwell alle porte.



Perché questa frattura così profonda fra conoscenze e competenze? Noi crediamo profondamente nell’unità della persona, nel suo essere cuore e ragione e sappiamo quanto solo la sintesi di questi due aspetti possa generare ben-essere, desiderio di approfondimento, gusto sincero per la relazione. Continuare ad accentuare questa dicotomia non può che generare disaffezione, disagio, violenza e ignoranza.

Molti dei prestigiosi intellettuali che in maniera assolutamente legittima continuano a reagire in nome della purezza della conoscenza disincarnata dalla realtà, lo fanno sulla base della propria esperienza di studenti (si veda, per esempio, il ricordo di Tronchetti Provera, su Il Sole 24 Ore del 30 gennaio, del suo meraviglioso Istituto Gonzaga e di quel grande grecista che fu Annibaletto, un mondo lontano anni luce dalla scuola attuale).



Con una lettera al Corriere sintetica ed estremamente chiara i professori Vittadini e Chiosso hanno cercato di rispondere, segnalando “la preoccupazione tutta educativa di aiutare i docenti a porre maggior attenzione a sviluppare, parallelamente alla trasmissione di conoscenze, le attitudini che possano contribuire alla crescita della persona nella sua interezza, magari con un occhio non distratto alle obiettive difficoltà che l’educazione dei ragazzi  e dei giovani pone oggi alla generazione adulta (bullismo, comportamenti a-sociali, videodipendenza, precoce introduzione all’uso di sostanze…)”.

Anche D’Avenia, contrariamente ai suoi toni di norma molto pacati, è molto severo e drammatico: “la scuola disumanizza la vita” e non fatica a sostenere la tesi, citando il profondo malessere dei ragazzi, il burnout dei docenti, del noto pamphlet di Mastrocola e Ricolfi, Il danno scolastico, nel quale viene stigmatizzata la realtà di una scuola che dovrebbe lavorare per l’equità e che invece genererebbe solo disuguaglianza. Richiama addirittura Giovanni Papini con il suo provocatorio “chiudiamo le scuole” e poi ancora Illich con il suo progetto di descolarizzare la società, esito quest’ultima di una scuola che solo addestra e non educa. Fino alla citazione del testo di Federico Fubini, La maestra e il camorrista. Perché in Italia resti quel che nasci, titolo già abbastanza esplicito sul noto tema dell’assenza di dinamismi sociali.

Prendiamo sul serio e studieremo di nuovo questi sacri testi, non accogliamo tuttavia l’invito di D’Avenia, se pur, si spera, metaforico, di disobbedienza civile.

“Disobbedienza civile”, che parola forte! Di tutto la scuola ha bisogno tranne che di battaglie cruente, di ulteriori tensioni.

Sono mesi che presidi e vicepresidi rincorrono dati Covid, sostituendosi in gran parte ai responsabili delle Ats (perché non si è pensato a incrementare l’organico degli operatori sanitari invece di rovesciare tutto quanto sulle scuole?): lasciateci fare scuola, ancora la sappiamo fare.

I progetti di inclusione sono in gran parte efficaci, è partita una seria formazione sui nuovi Pei, tanta cura per i tanti ragazzi stranieri che trovano a scuola mediatori capaci, stavamo preparando gli esami per i ragazzi e le ragazze della secondaria di primo e secondo grado sul modello degli scorsi due anni e invece un’ordinanza annunciata ha messo tutto a sconquasso: prima e seconda prova, soprattutto la seconda per nulla attesa. Greco, latino, matematica, lingue straniere al linguistico, materie tecniche agli istituti tecnici, di nuovo una rivoluzione, a poco più di tre mesi reali dal termine dell’anno scolastico.

Alla scuola secondaria di primo grado si era fatto lo scorso anno un tentativo interessante che lasciava spazio all’originalità del ragazzo, anche nel rispetto della prospettiva orientativa che caratterizza l’età. No, si cambia. Prima e seconda prova, italiano e matematica, dopo questi due anni monchi. Ma perché? Perché ora deve vigere un’ipocrisia di serietà, di riconoscimento del valore assoluto di queste due discipline che sole garantirebbero standard significativi? Perché questa tendenza, persino un po’ goffa, tutta tesa alla normalizzazione in un Paese che ancora normale non è?

Ci saranno probabilmente selezioni severe in fase di ammissione che costringeranno gli studenti più fragili, i più diseredati, a frequentare un anno in più. Persino negli anni di guerra (quando la scuola era una cosa seria!) non ci furono esami…

No, così non va. Il continuo cambiamento della struttura dell’esame, questo sì, è una vera umiliazione del lavoro di tanti docenti, dell’impegno dei ragazzi, della preoccupazione di tante famiglie. E poi ancora troppe polemiche sui test Invalsi, sui percorsi di Pcto, sull’educazione civica. Un po’ di constabilitas, di stabilità, non nuocerebbe.

I docenti sono professionisti, non automi al servizio del legislatore, così altro che burnout! E i nostri ragazzi, stressati e preoccupati, alcuni gravemente depressi, hanno bisogno di sicurezza, non del cambiamento continuo.

Non di delazione ha bisogno la scuola (D’Avenia arriva a proporre anche questo) e nemmeno di disobbedienza, ha bisogno di un impegno delle istituzioni a che gli edifici scolastici siano sicuri e accoglienti (questo noi non lo possiamo fare), ha bisogno di una più efficace allocazione delle risorse, di un ripensamento del sistema di istruzione pubblico (gli studi di Monia Alfieri sono illuminanti).

Ha bisogno che i docenti siano meglio retribuiti, perché, altrimenti, in pochi anni, si dedicheranno all’insegnamento solo pochissimi eroi ed eroine e molti altri che non troverebbero altra occasione di impiego (ricordo che per un dirigente scolastico è quasi impossibile già ora coprire le cattedre delle discipline matematiche e tecniche, il Pnrr ha contribuito alla scomparsa quasi totale di ingegneri e affini).

Le selezioni per arruolare (che brutto termine, anche questo più di stampo militare che formativo) non possono più valutare esclusivamente le conoscenze degli aspiranti docenti, ma devono verificare le attitudini all’insegnamento.

Qualche docente non particolarmente motivato lo abbiamo incontrato anche noi più vecchi, ma ora la fragilità dei nostri ragazzi e le attese delle famiglie, soprattutto le più bisognose, non lo permettono più.

Ogni tanto risuona il mantra che in altri Stati i migliori presidi e insegnanti vengano destinati alle scuole più difficili; da noi, tranne qualche caso di straordinario eroismo, gli insegnanti meglio preparati, usciti dalle università più prestigiose con le valutazioni più alte, inclini costantemente alla ricerca e allo studio, con l’eloquio più fluido, con capacità argomentative e persuasive alte, costoro, di norma, corrono ai licei classici e scientifici, magari del centro città. Possiamo immaginare con quali esiti per le scuole più periferiche e meno liceali, quelle più bisognose di diventare ascensore sociale o almeno predellino…

Abbiamo altresì bisogno di personale di segreteria competente e aggiornato: purtroppo sperimentiamo ancora poca autonomia didattica, ma molta autonomia amministrativa, le segreterie hanno in questo momento un carico di responsabilità che in altre organizzazioni sarebbe sostenuto da ben altri numeri e competenze. I direttori dei servizi generali amministrativi sono figure di sistema apicali, il loro lavoro andrebbe riconosciuto in ben altro modo.

Last but not least, lasciateci l’educazione civica, per amor del cielo, per chi ha voluto studiare seriamente, è un’opportunità significativa di condivisione, di educazione alla corresponsabilità, alla collegialità di cui cominciavamo a cogliere i vantaggi. Anche su questo fronte sento aria di burrasca.

Soprattutto nelle scuole più difficili, dove le emergenze, di tutti i tipi, sono quotidiane, lasciateci lavorare. La scuola ha bisogno di rinnovata fiducia, non di essere continuamente al centro di polemiche di chi questa realtà non la conosce, perché abituato a vivere in contesti elitari, scolastici o accademici o giornalistici che siano.

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