In tutti i Paesi ci sono scuole di buona qualità e scuole scadenti. Non solo in Italia, dunque, esistono – stando ai dati delle rilevazioni standardizzate – situazioni fortemente difformi, dall’eccellenza alla mediocrità. In Spagna, per esempio, si registra un forte scarto tra le scuole dei Paesi Baschi e quelle dell’Andalusia e lo stesso fenomeno si verifica tra alcune regioni del Canada, negli Stati Uniti, in Australia e in Messico. Generalmente queste difformità confermano che i risultati scolastici sono legati alle condizioni di sviluppo locali.



Questa situazione difficile da modificare è da molti anni e specialmente nei Paesi di tradizione anglosassone al centro dell’attenzione delle autorità scolastiche, dei centri di ricerca e delle università. Numerosi studiosi hanno esplorato le ragioni di questo fenomeno (ormai abbastanza ben identificate) e soprattutto si sono ingegnati a elaborare e sperimentare le strategie più efficaci per migliorare la qualità delle scuole in generale e, in specie, di quelle deficitarie. Nei punti che seguono cerchiamo di sintetizzare i risultati di questi studi.



Una gran copia di ricerche ha approfondito perché esistono le “scuole di sabbia” (secondo la celebre definizione di Robert Slavin, autore di un citatissimo saggio sull’argomento), cioè scuole dalle fondamenta precarie e perciò intrinsecamente fragili. Le ragioni sono molteplici e in genere dovute a un intreccio di situazioni negative assai complesse da sciogliere che più o meno sono a tutti ben note: contesti sociali problematici, instabilità del personale sia direttivo sia docente, famiglie disinteressate, scarsa o nulla partecipazione del territorio alla vita scolastica, eccetera. In questi casi – è l’unanime conclusione – senza l’intervento di più attori anche esterni alla scuola è arduo sperare di invertire la tendenza negativa. Difficile, se non impossibile, che con le sole risorse interne della scuola, si possa raggiungere un significativo miglioramento.



Altri studiosi si sono appassionati a verificare se sia più efficace un’azione di miglioramento pilotata dalle autorità scolastiche (per esempio incrementare in modo generalizzato le conoscenze matematiche o linguistiche in un determinato territorio) oppure se non sia più opportuno lasciare libertà alle scuole di auto-valutarsi e in ragione dei risultati di questa auto-analisi predisporre un piano di miglioramento (questa, come è noto, è la soluzione prevista da noi). In entrambi i casi sorge però il problema di chi stabilisce se i risultati ottenuti sono coerenti con gli obiettivi oppure se, nonostante gli sforzi compiuti, la situazione iniziale permane difettosa.

L’esigenza di qualche forma di verifica sui progressi del miglioramento (compresi quelli autogestiti) pone una serie di interrogativi su cui si è ormai stratificata un’ampia bibliografia (chi fosse interessato può consultare le annate della rivista School Effectiveness and School Improvement) dalla quale si possono trarre – detto in estrema sintesi – tre diverse soluzioni non necessariamente alternative: un controllo sistematico, attraverso prove standardizzate, gestito dalle autorità scolastiche; una verifica tra pari condotta non solo sui dati obiettivi ma anche sugli aspetti cosiddetti immateriali della vita scolastica (livello di collaborazione, rapporti interpersonali eccetera); l’affiancamento alla direzione scolastica di persone esperte che assiduamente (non occasionalmente) partecipano e concorrono a definire le scelte e gli obiettivi del miglioramento fino a che questo non si è consolidato.

Agli studi sul miglioramento in aula e nella singola scuola, si sono affiancate non meno interessanti e utili riflessioni sul miglioramento del sistema scolastico nel suo complesso con un’attenzione rivolta agli istituti d’eccellenza. Quando pensiamo alla qualità scolastica siamo tendenzialmente portati a guardare al bicchiere mezzo vuoto e a riflettere su come poterlo riempire. Ma il miglioramento non riguarda soltanto le scuole in difficoltà: tutte le scuole hanno margini di miglioramento, anche quelle che per consenso generale raggiungono esiti assai soddisfacenti. Il segreto del miglioramento – come spiegano gli psicologi – consiste infatti nella mobilitazione delle risorse latenti di ciascun insegnante mediante una motivazione che può essere particolarmente mobilitante quando si crea un’autentica comunità di lavoro. Ed è questo solitamente il caso che si verifica negli istituti migliori.

Lo scenario degli studi sul miglioramento è inoltre arricchito da indagini su aspetti specifici. In primo luogo, è stato studiato il management della scuola, il ruolo del dirigente e dello staff che lo affianca. Secondo alcuni la chiave del miglioramento starebbe proprio nella qualità del vertice scolastico. Alcuni ricercatori inglesi hanno indagato le modalità con cui accostare le scuole in difficoltà spesso consapevoli di essere nella retroguardia del distretto o della regione e quindi quasi inconsapevolmente portate a pensare di non poter invertire la situazione.

In altri casi l’attenzione si è rivolta a capire in che modo la realtà sociale esterna alla scuola può contribuire al miglioramento senza tuttavia interferire con le prerogative proprie degli insegnanti che, in qualunque parte del mondo, sono molto sensibili alla loro autonomia. Infine alcuni coraggiosi ricercatori hanno anche scavato nel rapporto – segnato da molte insidie e controverso anche perché considerato spesso un tabù da parte dei sindacati – tra esiti scolastici negativi, formazione iniziale e qualità professionale dei docenti.

Nel momento in cui, dopo alterne traversie, sembra che il ministro sia orientato a rilanciare il Sistema nazionale di valutazione, il tema del miglioramento potrebbe ottimamente tornare al centro della politica scolastica. Come abbiamo cercato sinteticamente di dimostrare, le idee per fare un buon lavoro non mancano.

(1 – continua)

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