Nei giorni scorsi è stata ampiamente ripresa dai media nazionali la notizia relativa alla fuga dei giovani laureati all’estero pubblicata nel Referto sul sistema universitario della Corte dei Conti. L’esodo registra un incremento del 41,8% in confronto al 2013. All’indignazione e alla preoccupazione del dato critico, segno evidente dei limiti funzionali dell’intero sistema Paese, non è seguito l’avvio di un dibattito teso a contenere il problema e la notizia rischia di finire nel dimenticatoio. È bene ricordare che l’Italia spende solo il 3,6% del Pil in istruzione a partire dalla primaria, quota inferiore alla media Ocse e tra le più basse tra i Paesi membri.
Inoltre tra i Paesi area Ocse l’Italia ha la terza quota più elevata di giovani che non lavorano, non studiano, non fanno formazione (nelle regioni del Nord la media è su livelli europei circa 12-13%, al Sud e Isole supera il 30%). Il presidente del Consiglio Draghi, in una recente visita in Emilia-Romagna, ha dichiarato che “serve una Italia unita nel desiderio di tornare a crescere e credere nel suo futuro”, un invito che ci trova concordi.
Nelle conclusioni del Referto “si invita alla riflessione sul ruolo dei sistemi educativi nel promuovere società resilienti: la pandemia ha evidenziato la vulnerabilità alle crisi che possono derivare dai più svariati fattori (politici, ambientali, economici) e la precarietà delle economie; la capacità di reagire dipenderà dalla lungimiranza, dalla prontezza e dalla preparazione dei governi nello sviluppo delle competenze e delle abilità per la società del futuro, nella quale i sistemi educativi dovranno essere al centro della pianificazione”.
Dunque urge una visione ampia ed inclusiva in tal senso, mentre i decisori vanno in direzione opposta. Il governo Conte 2 ha sdoppiato il Miur in due ministeri, Istruzione e Ricerca, sancendo la definitiva frattura tra due mondi paralleli che invece dovrebbero integrarsi ed avere un rapporto osmotico. È interesse dell’università – che deve scongiurare il rischio di essere un mondo a sé – occuparsi di scuola e del funzionamento del sistema dell’istruzione nel nostro Paese per più ragioni. Sono improrogabili investimenti nella scuola di base per rafforzare seriamente il sistema scolastico, che ridurrebbe significativamente la dispersione scolastica, nelle aree più fragili del Paese con un conseguente innalzamento dei livelli di istruzione terziaria.
Secondo studi del ministero dell’Istruzione relativi all’abbandono scolastico “è evidente come nelle aree con un reddito disponibile pro-capite più elevato il tasso di abbandono sia più basso; inoltre laddove vi sono maggiori disuguaglianze nel reddito e un più elevato rischio di povertà e di deprivazione materiale, il tasso di dispersione è più elevato. Relativamente alle variabili occupazionali, l’osservazione delle correlazioni mostra come vi sia un legame inverso tra dispersione scolastica e partecipazione al lavoro: più elevato è il tasso di occupazione nel contesto sociale in cui vivono gli alunni e più è basso il tasso di abbandono; analogamente, più elevata è la mancata partecipazione al lavoro e più il tasso di abbandono è alto. Si evidenzia un legame inverso tra la propensione al lavoro delle donne con figli con il tasso di dispersione, probabilmente perché tale variabile approssima un più elevato grado di sviluppo socio-culturale”.
Dal lato delle riforme istituzionali va scongiurata la regionalizzazione che sancirebbe la cesura definitiva tra Nord e Sud con il rischio che i finanziamenti del Recovery Plan finiscano per acuire i divari anziché ridurli. I limiti della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 sono emersi con forza durante la pandemia. Si sono verificati scontri durissimi tra Governo e Regioni sia nella prima fase che nella campagna vaccinale. Nell’arco temporale 2002-2020 si registrano 278 conflitti tra Stato e Regioni presentati alla Corte Costituzionale in materia di sanità. Il vizio di origine della riforma del Titolo V consiste nell’aver voluto fornire una risposta istituzionale a una domanda politica proveniente dalle aree più ricche del Paese. Le Regioni che nei lavori della consulta furono volute dalla Dc hanno aggravato sostanzialmente l’incapacità dei governi, tutti, di avere innanzitutto un nuovo modello culturale per il Sud. La risposta sociale e politica nel tempo ha sempre oscillato dall’incendio dei municipi all’idea dell’incapacità della politica di affrontare i problemi; ad esempio, per tornare ai nostri tempi, in Sicilia alle elezioni del 2018 c’è stata la conquista di tutti seggi parlamentari da parte del M5s come era avvenuto con Berlusconi. Dunque la politica come disvalore e incapacità di governo.
La questione meridionale o ciò che intendiamo per definire la permanente e crescente divaricazioni dei rapporti Nord-Sud in termini globali, nasce con l’unità d’Italia un secolo e mezzo fa. È stata sempre affrontata con fattori di sviluppo portati dall’esterno: dalla legge speciale per Napoli che produsse l’Italsider – acciaio – e l’Eav, Ente autonomo Volturno – elettricità – nonché dagli investimenti stranieri per i trasporti, ai cantieri navali. Gli investimenti di natura pubblica successivi non si allontanarono da questa logica: dalla Casmez alle Ppss.
La modernizzazione del Mezzogiorno è avvenuta sotto la spinta dell’intervento straordinario con innegabili benefici, ma senza incidere nei suoi limiti strutturali, condizione per una industrializzazione che avesse “cuore e cervello” in loco. A partire dal 1992 sono state delegate le Regioni ad occuparsi di Mezzogiorno, con i risultati noti. La riforma che serve al Mezzogiorno è di natura politica e declinata in un “nuovo” rapporto tra centro e periferie, che completi in senso europeistico la modernizzazione incompiuta. Solo a queste condizioni la quota molta alta di economia non osservata emergerà ed il privato troverà condizioni e convenienza per investire al Sud. Su tali questioni la comunità scientifica è chiamata a fornire un decisivo contributo.
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