In periodi in cui la quantità di scuola viene rimessa in discussione dalla situazione sanitaria, vale la pena continuare a riflettere sulla sua qualità. Dai saperi disciplinari alle competenze, un testo collettaneo del Mulino, ci prova presentando numerosi contributi di Angelo Maraschiello, Claudio Gentili, Paola Benetti e Vittoria Gallina. Non solo teorizzazioni o generalismi, ma anche strumenti concreti di lavoro basati su quanto realizzato nell’ultimo decennio da un significativo numero di scuole dalle primarie alle superiori: la Rete di Tradate, 16 istituti superiori pugliesi, scuole superiori campane coordinate dalla Usr e due istituti di Jesi che hanno partecipato al progetto Informa patrocinato dalla Compagnia di San Paolo. L’attenzione del testo è giustamente puntata, anche se non solo, sull’acquisizione delle competenze per il mondo del lavoro, ma il tema è affrontato in tutta la sua portata, come peraltro risulta dalle scuole coinvolte.



Luisa Ribolzi nella sua introduzione evoca il fantasma delle mode pedagogiche che, secondo le parole di Diane Ravitch, inducono a comportamenti da lemming: tutti insieme verso l’abisso (dell’oblio?). Ma non sembrerebbe questo il caso. Dopo aver messo in fila alcuni presupposti teorici e averci offerto un panorama della situazione internazionale in proposito (sempre utile, visto che il lockdown alle frontiere è un po’ che l’accademia della scuola italiana lo pratica), si ricorda che la frantumazione delle materie senza dialogo porta alla insignificanza e non al pensiero critico e alla dimensione euristica così spesso invocati. È limitante intendere le competenze solo in chiave strettamente funzionalistica in direzione del lavoro. Del resto, il famigerato addestramento del passato era proprio così: ancora vivono testimoni della presenza della “Cultura generale” perfino nel piano studi degli istituti professionali ante-riforma.



Oggi il discorso sulle competenze sembra un po’ accantonato e sembrano più alla ribalta le competenze trasversali, le competenze di cittadinanza, le soft skills (in ordine cronologico). Pisa fa al solito da apripista: dopo la parziale battuta d’arresto sulle competenze di cittadinanza – forse un terreno troppo delicato dal punto di vista politico-ideologico -, le soft skills sembrano al centro del dibattito e dei framework delle prove aggiuntive che i diversi paesi possono chiedere di somministrare.

Questo spostamento di attenzione sembra anche motivato, soprattutto in Italia, da ragioni strumentali di opposizione a una valutazione hard, focalizzata sullo zoccolo duro della matematica, dell’italiano e della lingua straniera. Sicuramente la scuola deve sviluppare e sviluppa anche altro, anche se non si finirà mai di dire che solo chi non le ha mai viste può sostenere che le prove Invalsi e Pisa non postulino anche skills trasversali eccetera eccetera. Ed è giusto, anche se più problematico, valutarle e valorizzarle. Resta il dubbio se il loro sviluppo possa coesistere con un sostanziale alfabetismo funzionale rispetto alle (ahimè alte) esigenze attuali di formazione. Si sa che cattivi risultati scolastici non hanno tarpato le ali ad individui eccezionalmente dotati nei vari campi dell’attività umana (Einstein cosa hai fatto…), ma ipotizzare che queste eccezioni siano trasferibili a livello di massa sembra alquanto implausibile. Ci basta per ora la trasgressione di massa in onda sui social.



Si sbaglia poi chi crede che queste competenze, così spesso invocate contro la gerarchizzazione sociale sottesa alle prove sulle “materie”, possano attenuare le differenze di livello fra gli status economico-sociali. Ad esempio, le prove standardizzate che Regione Lombardia ha a lungo utilizzato per la valutazione delle competenze di base nella IeFP costantemente hanno evidenziato che i ragazzi con performance scolastiche di basso livello si trovavano più a loro agio con item che postulavano riproduzione e non rielaborazione personale (le soft skills appunto). Stiamo riscoprendo l’acqua calda.

Ma in ultima analisi tutto questo insieme di parole d’ordine che, partendo dalle competenze, sono arrivate alla soft skills, esprime l’esigenza più che legittima che acquisire conoscenze serva a qualcosa. Fanno sorridere i sostenitori dell’amore per il sapere disinteressato che sarebbe stato il brodo di coltura della licealità del passato. Per la grande maggioranza si trattava di un indicatore dell’appartenenza a un ceto sociale superiore.

Piuttosto dovremmo domandarci se arroccarsi su conoscenze non motivate porti a qualche risultato a proposito del livello culturale generale di una società civile, che dovrebbe essere il vero obiettivo della scuola. Solo un esempio: in Gran Bretagna durante il lockdown gli acquisti di libri sono aumentati, in Italia il loro già basso numero è diminuito (dati usciti sui giornali in questi giorni). Sarà perché in questi anni nelle classi ha dilagato la didattica delle competenze?