La ormai nota vicenda delle studentesse del Liceo classico “Marco Foscarini” di Venezia candidate all’esame di Stato può essere letta da diversi punti di vista. Sul piano specificamente “tecnico” sarà l’indagine disposta dal ministero competente a fare luce. Noi possiamo auspicare che le domande che l’amministrazione porrà agli ispettori siano calibrate sui fatti. Se si chiederà di verificare la correttezza tecnico-amministrativa del comportamento della commissione e in particolare della commissaria di greco, avremo delle risposte. Se si chiederà di accertare le ragioni che hanno prodotto un tale comportamento in relazione al contesto complessivo dell’esame, alle operazioni “liturgicamente” previste per il suo espletamento nelle varie fasi, ai rapporti attuali e pregressi fra commissari interni ed esterni, nonché fra costoro e gli studenti candidati (tutti gli studenti di quella classe), ne avremo probabilmente delle altre.
Quanto accaduto, per coloro che seguono con attenzione le vicende scolastiche, si presta, ovviamente, a numerose riflessioni. Gli interventi già apparsi non solo su questo giornale hanno sottolineato come l’evento di Venezia sia un sintomo da non trascurare e come ormai questo modello di verifica finale sia obsoleto e quindi non credibile (ricordo che, pur con qualche variazione, anche notevole, il concetto di fondo che ispira l’esame rimane quello del 1923!). Posso solo aggiungere che il nodo non è tanto e non solo relativo alla struttura, ma riguarda il fatto che ci sia un esame obbligatorio al termine del percorso scolastico e che per esservi ammessi sia al massimo consentita una insufficienza.
Chi vive nella scuola sa bene che attualmente un’insufficienza allo scrutinio finale di ammissione è indicatore significativo di una situazione problematica e che, se fosse possibile levare il pietoso velo di Maia che nasconde le vergogne, di insufficienze ne comparirebbero più d’una. Se il ministero dell’Istruzione a suo tempo avesse accettato di consentire l’ammissione all’esame con i risultati veri delle valutazioni sommative finali, come proponevano non pochi e non poco autorevoli componenti della commissione che una decina di anni fa si è occupata della riforma, probabilmente molte sorprese non sarebbero tali e l’attribuzione del credito scolastico avverrebbe su basi più credibili. E questo il primo punto sul quale riflettere.
Bisogna poi affrontare una volta per tutte la questione centrale, che di tanto in tanto ritorna, ma rimane in qualche modo sempre periferica: nella scuola d’oggi la bocciatura non ha senso, non tanto e non solo perché i genitori e gli studenti non accettano sconfitte, ma perché nella “società della conoscenza”, specialmente per nazioni che hanno pochissimi giovani, il concetto di bocciatura non regge più. Quante volte ho sentito dire “se uno non ha voglia di studiare, mandiamolo a lavorare”. Ebbene, mettiamoci in testa che la contrapposizione fra studio e lavoro è un ricordo di un passato remoto del quale dobbiamo sbarazzarci. Chi non va bene a scuola non può essere “mandato a lavorare”, dato che anche per fare i collaboratori scolastici, “vulgo bidelli”, è necessario avere almeno una qualifica professionale. Chi è senza un titolo di scuola superiore oggi è di fatto un analfabeta, destinato solo a lavori materiali che a fatica svolgono gli stessi extracomunitari clandestini. La scuola è inevitabile.
Il nodo, quindi, non è il superamento dell’esame di Stato, ma la certificazione finale che attesti in modo serio e credibile le competenze raggiunte al termine del percorso di studi. Il che significa che non si devono annacquare o falsificare i voti. Si deve uscire dalla scuola con le valutazioni effettivamente e realmente conseguite. Si è parlato male di questo esame, ma non ce ne libereremo, se non troveremo un’alternativa valida; soprattutto se la questione scolastica, e in particolare quella della credibilità della scuola, non produrrà un movimento di opinione tale da obbligare la politica a occuparsene seriamente.
Non è mia intenzione qui dilungarmi su aspetti troppo tecnici, che forse non sarebbero capiti dalla maggioranza dei lettori; i quali, quando parlano di scuola, hanno in mente la “loro” scuola e non quella attuale, che dista anni luce non tanto e non solo da quella degli anni Novanta, ma persino da quella dei primi anni del XXI secolo. Se si vuole una data o, meglio, uno spartiacque cronologico per capire cosa è avvenuto, possiamo fissarlo nel quinquennio fra il 2007, anno in cui inizia la produzione di massa di smartphone, e il 2012, in cui Instagram, inizialmente app specifica di Apple, viene estesa anche ai dispositivi Android. Si tenga presente che gli attuali studenti di quinta superiore sono nati nel 2005 e che in media possiamo stimare che abbiano avuto confidenza con queste tecnologie intorno ai loro dieci anni: non solo sono “nativi digitali”, ma sono nativi social-mediatici. La loro mente non è abituata a resistere per più di pochi secondi sullo stesso argomento. Un testo letterario o un problema di matematica rappresentano un’esperienza complessa: una versione di greco o un’equazione di secondo grado un viaggio intergalattico. Si tratta dunque di coniugare universalità della scuola con valorizzazione dei talenti individuali. Questo sistema, concluso da questo esame, non è in grado di raggiungere questo obiettivo.
Ma scendiamo a terra; la questione è complicata dal fatto che l’art. 33.5 della Costituzione recita: “È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale”. I più ritengono che per uscire dall’impasse in cui ci troviamo sia necessario abolire il valore legale del titolo di studio. In realtà, la Costituzione non definisce i criteri in base ai quali sia possibile o meno la promozione. La forma dell’esame è compito di una legge ordinaria e non è necessario cambiare la Costituzione.
Due, a mio avviso sono – sic rebus stantibus – le vie possibili. La prima è quella di introdurre, sulla base della normativa costituzionale vigente, una semplice certificazione finale di completamento del percorso di studi compiuto con i voti realmente conseguiti allo scrutinio finale; l’esame poi consisterebbe in una prova per ciascuna delle cosiddette “discipline caratterizzanti” (per esempio greco e latino nel Classico, matematica e fisica nello Scientifico d’ordinamento, etc.); in questo contesto la qualificazione aggettivale (Classico, Linguistico, Scientifico etc.) dovrebbe essere rilasciata solo per il conseguimento di una valutazione almeno sufficiente (si tratta poi di definire dove fissare la sufficienza) nelle prove “specifiche” e attestata dal documento aggiuntivo di certificazione (già presente adesso accanto al diploma). Scale di misurazione in decimi, trentesimi, sessantesimi o centesimi non cambierebbero la sostanza dell’impostazione.
La seconda è, ovviamente, più complessa, perché richiederebbe la modifica della Costituzione, ma sarebbe probabilmente più affidabile e meno a rischio per le scuole. L’art. 33.5 Cost. potrebbe avere questa forma: “È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai cicli dell’istruzione successivi al primo e per l’abilitazione all’esercizio professionale. L’obbligo di istruzione e formazione è esteso al diciottesimo anno”. In tal modo la certificazione finale, al termine del secondo grado, senza esame avrebbe per tutti valore legale per l’esercizio di attività commerciali e produttive, ma per l’accesso alla secondaria di secondo grado e al post secondario sarebbero prescritti esami. Quello fra primo e secondo ciclo potrebbe restare anche come è ora. Mentre per l’accesso all’università o agli ITS o alle accademie si renderebbe necessario il conseguimento di una certificazione di competenza coerente con i percorsi che uno studente volesse intraprendere. L’esame finale sarebbe quindi obbligatorio solo per proseguire oltre il secondo grado.
In questa nuova organizzazione le scuole verrebbero ad assumere la funzione di enti certificatori. Se questo avviene già per ECDL, livelli linguistici moderni e altre competenze tecniche (certificazioni affidate in genere a strutture extrascolastiche, ma anche scolastiche), perché non potrebbe – non dovrebbe – avvenire questo anche per la matematica, la fisica, il greco, il latino, le scienze umane, le arti bi-tri-dimensionali, la musica d’insieme, la meccanica e la sala bar? Questo però comporterebbe un impegno gigantesco di natura pedagogico-culturale. Un cambiamento di mentalità radicale, che costringerebbe a un dialogo nuovo e concreto, scuola, università, mondo del lavoro e amministrazione scolastica. È tempo di cominciare a pensare a un cambiamento. Se non ora, quando?
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