È probabile che la nostra scuola abbia riscontrato una malattia che non è stata diagnosticata e che per questo potrebbe rivelarsi alquanto dannosa. Si potrebbe definire “la sindrome etica” e comporta diversi inconvenienti. Ma di che cosa si tratta?

Proviamo a individuare i sintomi. Per esempio, nella scuola italiana (media superiore, in genere) si protesta per il clima atmosferico avvelenato dalle società occidentali industrializzate, ma non si alzano le stesse lamentele nei confronti dei massimi inquinatori che sono le autocrazie orientali. Altro sintomo: una certa onda emotiva ha travolto le persone più attente a quanto accade in Iran, dove soprattutto gli studenti e le donne stanno guidando un’insurrezione contro il regime degli ayatollah. Il taglio della ciocca di capelli (le “ciocche di libertà”) si diffonde anche negli istituti scolastici italiani, ma non per questo il tema della libertà come costruzione positiva di rapporti e della sua radicale differenza dall’individualismo, per cui semplicemente si fa ciò che si vuole, è posto al centro dell’attenzione nei dialoghi educativi.



Ancora: nelle scuole italiane si promuovono iniziative contro la mafia e doverosamente si celebra la memoria dei caduti per mano mafiosa, come i giudici Falcone e Borsellino e tanti altri onesti servitori dello Stato, ma non sempre, anzi quasi mai, la mafia è compresa e studiata storicamente, nelle sue radici violente che non possono essere debellate con dichiarazioni verbali non accompagnate da una conversione personale del modo di vivere e di pensare.



Insomma, che cosa sta succedendo? Come si può identificare questa separazione tra l’apparire e l’essere, tra vita personale e vita pubblica? Sindrome etica, appunto. Siamo un po’ tutti, adulti compresi, malati di doverismo. “Dobbiamo” intervenire in difesa di qualcosa o di qualcuno per marcare l’appartenenza al campo di coloro che accusano, avvertendo sottilmente un senso di colpa per la propria storia da cui sgravarsi. Intendono, cioè, sgravarsi di un certo passato che è tutto male e rifarsi una certa verginità aderendo alla protesta “buona e lecita” contro certe storture del mondo attuale.



L’opposizione, tuttavia, non modifica la percezione che uno ha di sé e non è sufficiente a convertire la propria struttura umana al bene. Recentemente il filosofo Vito Mancuso sulle colonne de La Stampa (6 ottobre 2022) lanciava questa provocazione, ripresa poi in molti altri suoi interventi: “Nella scuola (italiana) si dispensa solo istruzione e si trascura del tutto l’educazione”. D’altra parte, continuava, “il concetto di educazione è ridotto alle buone maniere”. Pertanto “prima di educare la coscienza civile (del nostro essere cittadini) dobbiamo educare la coscienza morale”. E a questo punto il filosofo, per indicare una strada, riprendeva l’imperativo categorico di Kant (“agisci in modo da considerare l’umanità sempre come un fine e mai solo come un mezzo”) corretto dal principio di responsabilità di Hans Jonas: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”.

La domanda che vorremmo rivolgere all’intellettuale è la seguente: davvero ritiene che il principio di responsabilità si possa formare attraverso un soprassalto etico, ossia un richiamo a una volontà astratta perché non inquinata dall’interesse e dall’amor proprio? Ci permettiamo di dubitare di questa soluzione. La riteniamo, anzi, una riduzione molto diffusa: in fondo, come abbiamo documentato, tutta la scuola è continuamente attraversata da imperativi etici (dover essere: devi studiare, devi stare attento, devi impegnarti…) senza che si muova la coscienza profonda delle persone (alunni e insegnanti) che vi trascorrono buona parte del loro tempo.

Se intendiamo educare alla responsabilità (fattore sacrosanto della convivenza tra persone civili) e non far prevalere tra le mura scolastiche il solo apprendimento/addestramento, non possiamo fare a meno dell’io, cioè della cura e dell’attenzione che la persona, ogni persona, occorre abbia verso le proprie più profonde domande e i propri più profondi desideri.

Se l’etica esclude il desiderio di felicità, di significato, di bellezza, non è l’etica la strada verso la responsabilità morale e civile. Solo il desiderio di totalità mette in rapporto sé con la propria struttura umana ed è veicolo alla comprensione di ciò che accade attorno a noi e in noi. Il desiderio di pienezza è il filo di Arianna che conduce alla percezione dei tesori racchiusi negli autori che si studiano a scuola, della storia dei popoli, delle scoperte geografiche e scientifiche. Ed è lo stesso desiderio che si avverte su di sé che mette in rapporto con i giovani iraniani, con gli ucraini, con le problematiche legate al clima.

Perché cercare un mondo migliore nella somma delle “azioni responsabili” se tali azioni si riducono a forme di comportamento cui non corrispondono esistenze libere e liberate? L’azione educativa più che essere introduttiva all’etica sociale dovrebbe essere rivolta all’affrancamento del desiderio umano dalle sue catene. Non si tratta ovviamente di solleticare gli istinti, ma di aiutare gli alunni a formulare le domande di senso più profonde anche nelle difficili circostanze che viviamo.

Desiderare una vita piena di significato è molto di più che adeguarsi alle mode indotte da un certo potere dominante.

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