In Italia c’è una “questione giovanile” che urge di essere affrontata, in primis sul fronte lavorativo e su quello educativo. La disoccupazione in alcune aree del paese è alle stelle e secondo i dati Eurostat siamo tra i Paesi europei con il tasso di Neet, ossia giovani tra i 15-29 anni che non studiano e non lavorano, più elevato, al 23,1%. Una condizione che se eccessivamente procrastinata nel tempo aumenta il rischio di esclusione sociale e di abdicazione alla ricerca della propria strada nella vita e nel mondo. Dal fronte scolastico, i dati non sembrano essere più incoraggianti. Come già dichiarato a maggio dal ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, anche a causa della crisi demografica, da qui al 2032-33 l’Italia avrà 1milione e 400mila studenti in meno. A questo si aggiunge che nel 2021, come riportato anche da Save The Children, il tasso di abbandono scolastico ha sfiorato il 13%, collocando l’Italia in terz’ultima posizione in Europa con Spagna e Romania. Una vera e propria emorragia che urge di essere frenata.
La difficile condizione lavorativa e educativa dei giovani non è adducibile ad un’unica causa, bensì ad una complessa serie di fattori tra loro concatenati. I più noti sono la bassa produttività del Paese che si ripercuote in parte su minori opportunità lavorative per chi muove i primi passi nel mercato del lavoro, il persistente disallineamento tra le competenze richieste dalle imprese e quelle su cui vengono formati i giovani durante gli studi, nonché i tagli sugli investimenti in istruzione e formazione, pari a circa al 4% del Pil in epoca pre-Covid e destinati a diminuire fino al 3,4% nel 2030. Un caotico quadro della situazione che non può però abbattere le speranze di rilancio del presente e del futuro dei giovani, attraverso la valorizzazione di un nuovo modo di “fare scuola” e la costruzione delle giuste condizioni per il loro ingresso nel mercato del lavoro.
Rispetto al primo punto, occorre promuovere un modello educativo e di apprendimento basato sull’alternanza formativa tra scuola e lavoro all’interno dei percorsi di studio. Soltanto in questo modo è possibile sviluppare quell’insieme di competenze di tipo relazionale e trasversale tanto utili per eccellere in un futuro professionale, per favorire un maggiore coinvolgimento dei giovani nel processo di apprendimento e, di conseguenza, per combattere gli abbandoni.
L’alternanza scuola-lavoro, oggi “Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento” (Pcto), rappresenta certamente un utile strumento per il perseguimento di questo obiettivo, che tuttavia necessita di essere migliorato in una prospettiva di sistema che non lasci sole famiglie, scuole e imprese nell’organizzazione di esperienze sicure e di qualità. È urgente anche una svolta culturale sul tema dell’istruzione e formazione professionale, che non può più essere considerata l’ultima ruota del carro del sistema educativo. Questa rappresenta infatti la vera occasione di riscatto per quei giovani con una spiccata propensione pratica, in molti casi a rischio abbandono nel sistema scolastico-universitario tradizionale, e per la costruzione di quei profili professionali che le imprese faticano a trovare e che determinano gran parte della disoccupazione giovanile. Non è un caso che coloro che escono dagli istituti tecnologici superiori (Its), i percorsi di istruzione e formazione terziaria non universitaria su cui il Pnrr investe oltre un miliardo di euro, nell’80% dei casi trovano un lavoro soddisfacente entro un anno dal conseguimento del titolo, sintomo dell’eccellente occupabilità che viene garantita a chi li frequenta.
Sul fronte occupazionale occorre quindi scommettere sul dialogo tra imprese e mondo educativo per fare dell’investimento in capitale umano la punta di diamante del nostro Paese. Alcune esperienze europee, non ultima quella tedesca, rappresentano già un’eccellenza nella promozione di strumenti di inserimento nel mercato del lavoro come l’apprendistato, che può rappresentare il punto di svolta per il futuro lavorativo dei giovani e per l’economia italiana. Si tratta di un vero e proprio contratto di lavoro retribuito, ancora poco diffuso in Italia anche a causa della concorrenza non sempre leale degli stage, il cui apporto rivoluzionario si basa su un forte abbattimento del costo del lavoro a favore delle imprese e sulla messa in comunione di formazione e lavoro per un più rapido, tutelato ed efficace inserimento lavorativo del giovane.
È indubbio come la messa a sistema di questi strumenti non possa tuttavia prescindere da una ristrutturazione dei servizi e delle politiche attive per il lavoro, che passa attraverso la valorizzazione dei territori e del ruolo delle agenzie per il lavoro private, abbattendo il pregiudizio del monopolio pubblico come unico garante della tutela del bene lavoro. Ad oggi, nonostante qualche eccezione a livello locale, manca ancora un sistema efficiente che si occupi della costruzione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, penalizzando soprattutto i più vulnerabili e i più giovani che non sempre hanno la fortuna di contare su ampie reti di contatti per la ricerca di un’occupazione.
Quanto fin qui detto rende evidente come lo Stato non possa essere l’unico regolatore e fautore del bene comune e del riscatto del futuro dei giovani. La complessità delle problematiche odierne mette al centro l’esigenza di una risposta che parta dal basso e dalla valorizzazione dei territori e delle realtà che già funzionano, a partire dai modelli educativi virtuosi già presenti nel Paese e dai distretti territoriali in grado di generare occupazione, sviluppo e benessere anche a favore dei giovani. Soltanto in questo modo potrà davvero essere adottata una prospettiva sussidiaria e partecipativa, che faccia del coordinamento sinergico tra istituzioni pubbliche, istituzioni formative, imprese, terzo settore e altre realtà associative la chiave di volta del proprio agire.
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