Il giudizio, espressione di una ragione aperta e sollecitata dal reale, si esercita paragonando tutto ciò che si incontra nella realtà e nello studio con la propria umanità, con le evidenze di cui è costituito il cuore di ogni uomo: quella natura che urge e che si infiamma incontrando il bello, il giusto e il bene, generando così un’esperienza di soddisfazione, che è immediatamente riconoscibile da chi non misconosce la propria umanità. È questo cuore originario che adulti e giovani devono riscoprire, per poter generare una reale esperienza di conoscenza.



Forse dobbiamo iniziare a far percepire ai nostri studenti che non basta studiare, ammesso che lo facciano, lo studio diventa dignitoso, all’altezza del proprium dell’umano, quando si fa conoscenza e la conoscenza non può prescindere dal giudizio e dalla cura dell’io.

La conoscenza ha a che fare con la vita, con il cuore, mentre lo studio può rimanere un’astrazione, un accumulo di informazioni avulso dalla vita e come tale per nulla appetibile da un giovane, ma anche da un adulto.



Il cuore nel suo continuo lasciarsi sollecitare dalla realtà e dalle sue esigenze costitutive esercita non solo l’arte del giudizio, ma anche la libertà, che è il carattere proprio della natura umana, come ci ricorda D’Avenia nel suo ultimo libro, Resisti, cuore. L’odissea e l’arte di esser mortali (Mondadori, 2023): “Resisti, cuore! È la sintesi dell’intero poema: un’epica del cuore. L’uomo è capace di dialogare con sé stesso, e questa conversazione interiore, capacità di ri-flettere, piegarsi su di sé, lo rende uomo, lo dota di una vita che lui percepisce ‘dentro’ di sé, e che per questo chiamiamo ‘interiore’. Senza questo ‘spazio’ l’uomo smette di essere tale: dove l’animale ha l’istinto che detta ogni azione, noi abbiamo un’energia creativa che ispira e anima, ma ci lascia liberi. (…)  Ecco l’uomo, un cuore intelligente resistente” (p. 336).



Non si tratta di un’impresa semplice, perché esercitare la libertà qualche volta può dare anche i brividi, soprattutto ad adolescenti, che rischiano di essere soli davanti alle sfide della vita.

Diventa dunque irrinunciabile a scuola la generazione di una comunità educante: figure di adulti che siano in grado di accompagnare i giovani, come ricorda Affinati nel suo ultimo libro Delfini, vessilli, cannonate (Harper Collins, 2023): “Chiunque abbia a che fare con gli adolescenti, in famiglia o a scuola, come padre e madre o nella funzione di educatore, è costretto a fronteggiare il continuo scarto che essi vivono fra i precetti che l’ordine sociale e giuridico chiede loro di accettare e la pulsione irrefrenabile che al contrario li spingerebbe, se non a distruggerli, almeno a contestarli: una frizione dolorosa tra la deflagrazione del desiderio, colto nella sua massima espansione biologica, e la necessaria accettazione del patto sociale. Nella drammatica conciliazione di queste forze contrastanti si forma il carattere della persona: se ciò non succede, possono aprirsi i fossati delle tossicodipendenze, le pareti cieche della disperazione. Ecco la ragione per cui trovare in certi momenti di particolare travaglio un adulto che non si limiti a indicare la norma, ma sia disposto a incarnarla, scoprendo gli ingranaggi della fatica necessaria, diventa imprescindibile” (pp. 31-32).

La nostra società e la scuola hanno bisogno di adulti lontani dal moralismo, inteso come imposizione di regole da seguire, di uomini e donne interessanti per il modo in cui guardano alla vita, alla realtà, alla materia che insegnano, capaci di immischiarsi con la vita di chi hanno davanti e di comunicare la bellezza di quanto insegnano.

Adulti che hanno cura della loro vita e per questo sanno accogliere le domande dei giovani che incontrano.

La cura è infatti il tratto distintivo della relazione educativa: il prendersi cura implica l’interezza dei due soggetti in gioco e la considerazione della loro libertà. Si tratta di un incontro, non di uno scontro, di un arricchimento reciproco, nella consapevolezza dell’asimmetria del rapporto.

L’adulto, che ha percorso un tratto in più di vita, se ha esercitato libertà e giudizio, potrà essere propositivo di uno sguardo sull’esistenza e sul mondo, come ricorda Luigina Mortari nel suo libro Filosofia della cura (Cortina, 2015): “Trovare la giusta misura della cura è il difficile dell’agire educativo. Le teorie ‘centrate sullo studente’ teorizzarono la necessità di riuscire a promuovere il pieno sviluppo dell’altro senza intromettersi nel suo spazio vitale, nel suo ordine del cuore e negli spazi generativi della sua vita mentale. Se il rischio di colonizzare l’altro è rilevante, non meno importante da monitorare è il rischio di impoverire il processo educativo per un’eccessiva riduzione dello spazio di presenza dell’adulto. Si assiste oggi alla tendenza a ridurre la cura educativa – che ha il suo senso vitale nel prendersi a cuore l’essere dell’altro in tutte le sue potenzialità – alla sola azione di istruire; così però il processo formativo diventa riduttivo e impoverisce le stesse possibilità d’essere dell’altro” (pp. 208-209).

Per iniziare a superare lo scollamento tra la vita personale e l’esperienza scolastica si potrebbe cominciare a privilegiare l’educazione sull’istruzione, la conoscenza sullo studio. Educare e conoscere sono opere umane profondamente intessute di cura.

(2 – fine)

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