In occasione dei 700 anni di Dante la rivista LineaTempo ha dedicato un ampio dossier – “Imparare da Dante, insegnare Dante” – alla figura del grande poeta per verificare quanto le sue parole oggi siano capaci di incontrare l’umano, soffocato dal dilagante individualismo, nelle scuole e nella vita.
Quando si è immersi nelle citazioni di Dante a proposito o a sproposito, come succede in questi giorni, si finisce per non vedere più nulla. Mentre si impara molto da una lunga e paziente fedeltà. Lo sanno i docenti e lo intuiscono – speriamo – i discenti. La fedeltà è necessaria perché la ricchezza del testo dantesco si rivela pian piano che si arricchisce la capacità di confrontarlo con le esperienze della vita e si matura la capacità di interrogarlo.
Così, è nella riflessione sulle dimensioni fondamentali dell’esperienza umana e sul loro intreccio con l’esigenza di trovare il significato dell’inesauribile domanda di compimento dell’uomo, che si può vedere come Dante le conosca tutte e sappia andare al fondo di ciascuna di esse cercandone la verità. La Commedia è compiutamente realistica nel rappresentare la condizione dell’uomo.
Per esempio, è affollata di amici e Dante impara nel suo cammino a distinguere tutte le sfumature dell’amicizia.
Come sentimento che si fonda su un legame è assente nel mondo della divisione infernale, mentre matura lungo la salita del Purgatorio, purificandosi da ogni venatura solo sentimentale, per approdare alla consapevolezza che c’è la possibilità per l’uomo di vivere un’amicizia piena quando questa porta al bene, nel riconoscimento che non è fondata sulla base di un’intesa naturale, ma è un segno e un’indicazione voluta dal cielo, come avviene fra Dante e Virgilio.
E chi non sa come sia forte l’anelito alla libertà?
Dante sa che essa è la chiave di volta della vita umana e pone il canto di Marco Lombardo, dove si affronta proprio questo tema decisivo, a metà del Purgatorio, ossia nel cuore della cantica di mezzo, proprio al centro dell’intero poema: “lume v’è dato a bene e a malizia, / e libero voler; che, se a fatica / ne le prime battaglie col ciel dura, / poi vince tutto, se ben si notrica” (vv. 75-78). E ci sorprende, in questo contesto di individualismo narcisistico, con il concludere il suo percorso affermando che il vertice della libertà è il piacere, anzi potremmo proprio dire il godimento del rapporto con l’Altro.
L’uomo è stato creato per essere felice, e può raggiungere questa pienezza solo con l’adesione libera e responsabile dell’io al modello pensato per ciascuno da Dio, al di là delle aspettative familiari, sociali e oltre il progetto di vita e le illusioni personali.
Conquista fondamentale e difficile che Dante ci mostra possibile attraverso l’esperienza di un’amicizia che diventa paternità. Sarà proprio Virgilio dolcissimo padre a dichiarare, in versi indimenticabili, il suo discepolo uomo libero: “Non aspettar mio dir più né mio cenno;// libero, dritto e sano è tuo arbitrio // e fallo fora non fare a suo senno:// per ch’io te sovra te corono e mitrio”.
L’esperienza della paternità a sua volta porta alla conoscenza del Padre attraverso la realtà.
Una conoscenza che si realizza progressivamente come trasformazione del desiderio di conoscere tutto nel desiderio di essere amato e amare, come coscienza del rapporto strutturale del cuore dell’uomo creatura con il suo creatore. E che si rivela nel calore dell’affettività come quella che lega, prima di ogni razionalizzazione, un bimbo a sua madre.
La complessità e la bellezza di questo cammino profondamente personale e insieme universale mal si presta ad essere comunicato con strumenti espressivi che sembrano oggi più facili, come per esempio il teatro e il cinema.
Dante si impone e comunica con l’unico strumento che lo rende possibile: la poesia del cammino di vita di un pellegrino dell’ineffabile, che non è un personaggio espediente letterario, come voleva la tradizione medievale, ma un personaggio “carnale”, con una storia personale ricca di svolte e disillusioni, come è per ciascuno di noi.
Siamo troppo lontani dall’esperienza dei ragazzi di oggi per insegnarlo anche ai più giovani?
In realtà se c’è un modo privilegiato di imparare Dante è quello di insegnarlo, perché non si insegna se non imparando.
Imparando da come si rinnova in mille modi l’incontro con il testo, imparando come è più vero per noi quello che gli altri scoprono vero. È Dante stesso che ce lo mostra nel suo cammino, che si configura come una vera scuola, con tanto di discepolo (lo stesso Dante) e di un maestro (le sue guide) e mostrandoci il progredire nella sua conoscenza della verità attraverso incontri, dubbi, incertezze, e gioie folgoranti di comprensione, sempre fidandosi di chi lo guida e senza mai dimenticare il proprio corpo, il proprio vissuto umano.
È interessante comprendere come oggi Dante, invece che intimidire i ragazzi (e a volte i loro insegnanti), li possa affascinare. La breve ricognizione svolta da LineaTempo mostra anzi che nel nostro contesto si sono moltiplicate le strade che l’intelligenza didattica di un insegnante può trovare, perfino i piccoli della scuola primaria possono saper cogliere con immediatezza la grandezza del viaggio dantesco e ci insegnano che la semplicità è un buon modo di leggere.
L’arte dell’insegnare (e dell’apprendere) consiste sempre nel mettersi in gioco personalmente, e non è mai solo nel raggiungimento di nuovi contenuti. S. Agostino un giorno chiese al figlio che cosa avesse imparato a scuola e il giovane gli rispose: il Padre nostro. Ma, intervenne il padre, hai imparato le parole del Padre Nostro o che cosa vuol dire chiamare Dio “Padre”?
È questa continua tensione a comunicare, oltre le parole, la vita che le genera e le rende vere ciò che rende il testo di Dante inesauribile e che ci ritrova dopo 700 anni appassionati lettori.
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