Uso questi strani giorni di calma dopo i primi due mesi di combattimento scolastico per tirare un po’ le somme. Mesi scanditi da alcune evidenze.
Innanzitutto il ritorno a scuola in presenza per il quale il Paese ha chiesto al popolo della scuola il sacrificio più alto in termini di tempo e organizzazione, la gioia del ritrovarsi che non regge alla fatica quotidiana, ovvero non può bastare a sostenerla, la disciplina e l’impegno degli studenti nell’osservanza delle regole di convivenza anti-Covid (proprio non ci avrei totalmente scommesso) e gli annosi problemi di sempre (reclutamento, sicurezza, spazi insufficienti, didattica e recupero degli apprendimenti …..). Si ha come la percezione che il graduale ritorno alla “normalità” ci stia facendo perdere l’enorme carica innovativa che l’emergenza aveva scatenato. Certo non si può vivere di urgenze, ma l’assopirsi nella stanchezza è una sensazione che fastidiosamente aleggia.
Qualche giorno fa ho partecipato a una giornata di studi su Joan Turner Jara promossa da AIRDanza (Associazione Italiana per la Ricerca sulla Danza) e CeSAL (Centro di Studi sull’America Latina). Abbiamo raccontato la vicenda umana di questa danzatrice, coreografa e moglie del cantautore cileno Victor Jara nello spaccato del contesto artistico, storico, politico e sociale della repressione cilena di Pinochet.
In questi anni di Covid, al Liceo coreutico, dovendo “danzare a distanza”, impresa quanto mai peculiare, abbiamo cercato di utilizzare il tempo raccontando e approfondendo con i nostri studenti storie e vite dedicate all’arte e alla danza, con un grande interrogativo “capire il corpo per capire il mondo”. Abbiamo riscoperto il valore dei testimoni e della testimonianza, metodo che coinvolge e commuove. Ogni volta il racconto della storia di una vita che dà senso alla vita, un’esperienza che ricorda qual è il valore più autentico e profondo dell’arte.
L’incontro ha fatto emergere come, attraverso l’arte e la danza, sia possibile suscitare un sentimento di compassione radicale e universale: considerare il “comune soffrire” dell’umanità come proprio, sentirsi coinvolti fino a desiderare di utilizzare la propria possibilità di azione come strumento per produrre cambiamenti. E se la danza per definizione insegna a guardare la bellezza delle persone nel tempo e nello spazio, la scuola insegna ad interpretare le dinamiche e la storia di queste relazioni. Se non la conoscete, vi invito ad approfondire la storia di Joan Turner Jara, questa donna indomabile.
Ma non è questo ciò che mi ha decisamente colpito. Come sempre mi ferisce lo sguardo dei ragazzi, invitati all’evento. Volti “mascherati” dagli occhi luccicanti. Stiamo combattendo per evitare il contagio ma accade che il contagio vero, quello che riguarda le persone e i cuori, sia, forse, la grande possibile speranza. Li ho visti contagiati, ancora una volta, da una storia vera. Non annoiati, non distratti, non persi. Ai nostri giovani interessa qualcosa e qualcuno che vive per amore, per un ideale, alla ricerca di un senso oltre la morte, dentro la morte. E a noi, adulti stressati e disillusi ancora di più. E mi viene in mente che questo contagio non possiamo consentire che smetta di produrre azioni e occasioni per diffondersi. Contagiarsi con la vita. Con la storia. Non con i discorsi e i propositi astratti.
Qualcuno tornando a casa in treno, dopo l’incontro, raccontava alla Docente di Danza che ha curato con infinita passione l’evento/testimonianza: “ Prof, ieri ci ho pensato a quello che avete detto. Tutto il viaggio di ritorno ho guardato fuori dal finestrino”.
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