Il Corrierone si è mosso. Poiché luglio è il mese dell’Invalsi, cioè il solo brevissimo periodo in cui sui giornaloni si parla della scuola non solo in termini di scandaletti, un articolo di Valentina Santarpia  (“Maturità, i 100 e lode al sud ribaltano i risultati Invalsi”, 23 luglio) compara finalmente i numeri e le graduatorie regionali dei voti di maturità con i risultati dell’Invalsi nelle prove dell’ultimo anno delle scuole superiori, che alfine si sono tenute nella primavera 2019 dopo più di un decennio di sorde battaglie.



Un’Italia della scuola a testa in giù: prima la Puglia, seguita a ruota dalle Regioni-coda di Invalsi (Campania, Calabria, ecc.), ultima la Lombardia, con attorno le Regioni in testa ad Invalsi. Nonostante gli avvertimenti, gli insegnanti del Nord proseguono nella masochistica predisposizione a centellinare le lodi ed a calmierare le votazioni. La pervicace volontà di tenere le prove Invalsi fuori dai “voti” di quelli che vengono definiti pomposamente esami di Stato si spiega a questo punto chiaramente, anche se rischia di essere un boomerang, come il 96% di adesione volontaria alle prove Invalsi degli allievi di quinta superiore. Infatti i dati che, grazie alla possibilità di scaricarli da parte del singolo, fungono dal 23 luglio di fatto da certificazione aggiuntiva al voto di maturità (magari in contrasto!) sono in questo modo più chiari e non manipolabili, come nel caso in cui fossero stati mischiati a quelli delle prove interne, magari (come succede in questi casi) adeguatamente gonfiate.



In verità il Corriere poteva muoversi anche prima. Da qualche anno infatti sono di pubblico dominio i numeri delle prove Invalsi della seconda superiore, che dicevano esattamente la stessa cosa delle appena nate prove di quinta: l’Italia a testa in giù. Non era impossibile immaginare che il miracolo non fosse determinato nelle scuole del Sud da una mattanza degli allievi meno dotati dalla terza classe in avanti, anche perché proprio in quelle aree, una volta superato il “biennio dell’abbandono”, i bocciati si contano sulla punta delle dita.

Acclarati i fatti, è il caso di cercare qualche spiegazione che non sia solo quella ineffabile della preside che chiude piuttosto ambiguamente l’articolo in questione “5 anni contano più di un test”. Il che per certi versi potrebbe essere vero, se non fosse che questa verità sembra valere solo in un’area del paese.



Prima ipotesi. Giova ricordare in proposito quanto rilevato anche nel rapporto italiano Pisa 2006. In quell’edizione era presente nel questionario studente una domanda nella quale si chiedeva quale fosse il voto della scuola “ufficiale” riportato dall’allievo nel periodo immediatamente precedente alla rilevazione, nella “materia” oggetto principale dell’indagine (in quel caso matematica). Anche in alcune delle rilevazioni successive tale domanda era presente, ma non utilizzata nei relativi rapporti italiani. Certo, le risposte degli allievi non potevano essere verificate, ma a livelli macro si sa che la verità salta sempre un po’ fuori. Semplificando, risultava che ad un livello insufficiente di prestazione Pisa corrispondeva al Nord un voto appunto insufficiente, al Sud un bel 7. Chiamasi “dispercezione”.

Perciò, per un verso, la scuola al Sud sembra orientarsi verso percezioni della realtà delle competenze reali degli allievi utilizzando una scala tarata su valori più bassi di quelli in uso nei paesi “avanzati” cui viene sulla carta omologata. Colpa del contesto socio-culturale, prima ancora che economico? Colpa della autoindulgenza della scuola stessa che si adagia sul contesto? Forse pesa anche il maggiore ottimismo circa se stessi e la realtà circostante che sembra aleggiare là dove il sole picchia più forte: si è mai sentito esaltare Venezia o Firenze, per non parlare di Torino, nella pubblicità e nelle trasmissioni televisive, come ad esempio avviene per Napoli e la Sicilia?

Probabilmente sono vere ambedue le cose, ma sono ancora del tutto da indagare le proporzioni in cui ciò avviene. Ciò che è ormai del tutto inaccettabile è rimuovere questa realtà, adducendo il fatto che anche al Sud ci sono scuole che fanno il loro lavoro: ogni tanto rispunta fuori la teoria assolutoria della scuola italiana “a macchie di leopardo”. I dati sul valore aggiunto dimostrano che si tratta di una minoranza sbilanciata dal numero delle scuole che, a valore aggiunto negativo, il loro lavoro non lo fanno.

La seconda ipotesi parla invece di taroccamento volontario. Ai bei tempi in cui commissari e presidenti del Nord potevano fare un po’ di vacanza nelle maturità del Sud, era noto che i commissari interni si battevano con molta decisione per “alzare i voti”. Mancano naturalmente le statistiche in proposito, ma sarebbe interessante capire se è cambiato qualcosa da allora. La spiegazione addotta in confidenza fra colleghi parlava esplicitamente della necessità di voti alti per riuscire nei concorsi pubblici, solo possibile sbocco di lavoro per i propri allievi.

A questo punto però si impone una bel ripensamento del peso concreto di questi voti della maturità. Sono ancora in vigore i premi finanziari inaugurati dal buon ministro Fioroni per i voti alti alla maturità? Che peso hanno nei concorsi pubblici? Quando questo scandalo cominciò ad essere chiaro – parecchi anni fa – si appurò che non esiste alcuna legge istitutiva del famoso “valore legale del titolo di studio” né della necessità di graduare i punteggi sulla base dei voti. In realtà spesso nei singoli bandi o concorsi di organizzazioni pubbliche o semipubbliche il possesso di un titolo di studio funge da garanzia di un minimo di base. Basterebbe levare peso al livello dei voti per far sì che questo fenomeno entri nel campo del folkloristico.

Si impone anche che qualcuno metta seriamente le mani sui dati Invalsi della scuola del Sud, per capire un po’ di più di questo iato territoriale che non ha pari in nessuno degli altri paesi dove si svolgono le indagini Ocse.