Gli ultimi dati Invalsi hanno mostrato, fuori da ogni dubbio, il crollo degli apprendimenti nel nostro Paese, trovando questa volta adeguato spazio nei mass media e suscitando l’interesse dell’opinione pubblica. Merito indiretto, se così si può definire, dell’effetto pandemico del Covid-19, che ha messo a nudo in modo plateale le fragilità e le criticità della scuola italiana, accumulatesi da decenni.
Come docente di lettere, con una variegata esperienza professionale dalla scuola media al liceo per passare alla serale e all’università, mi sono fatto una mia idea specifica delle competenze – per usare una parola ormai divenuta un mantra – su ciò che viene detto dai dati Invalsi relativamente alla lingua italiana. Se guardiamo i numeri sciorinati nel luglio del 2021 per le scuole superiori, si nota che, a livello nazionale, gli studenti che non raggiungono risultati adeguati, ossia non in linea con quanto stabilito dalle Indicazioni nazionali sono: in italiano, il 44% (+9 punti percentuali rispetto al 2019); in matematica, il 51% (+9 punti percentuali rispetto al 2019); in inglese-reading (B2), il 51% (+3 punti percentuali rispetto al 2019); in inglese-listening (B2), il 63% (+2 punti percentuali rispetto al 2019).
Sarà solo “colpa” della Dad? Certamente una parte di responsabilità è da attribuire alla didattica a distanza divenuta, camaleonticamente, per l’anno scolastico appena terminato, didattica integrata a distanza (Did). Ma la pandemia non ha fatto altro che acuire ed esacerbare le criticità delle “s-competenze” degli alunni di oggi, e in particolare in quella che chiamerei – con molta creatività – la “neo-questione della lingua italiana”, che a differenza di quella storica che va da Dante a Manzoni, si esprime ai nostri giorni tutta in chiave didattico-pedagogica, per le nuove generazioni di “italiani”.
Dopo 150 anni dalla istituzione della Legge Coppino con cui si sanciva l’obbligatorietà della scuola elementare per tutti, nel 2017 fu avanzato un appello del cosiddetto Gruppo di Firenze, sottoscritto da oltre 700 personalità del mondo accademico, scolastico, culturale, intellettuale, artistico, più o meno famose per portare all’attenzione delle istituzioni e delle autorità la drammatica situazione in cui versa la conoscenza della lingua italiana nel terzo millennio.
Allora, come si può affrontare questa emergenza democratica e sociale che si rispecchia nell’emergenza delle “scompetenze” della lingua italiana?
Se si rivolge l’attenzione all’università italiana, che sta sperimentando l’inusuale fenomeno sociologico della “liceizzazione”, si constata che essa ha la possibilità di poter svolgere una verifica delle conoscenze iniziali dello studente: se dunque dalla verifica emergono “lacune”, allo studente vengono attribuiti gli Ofa (Obblighi formativi aggiuntivi), ovvero attività supplementari come corsi e seminari da assolvere nei modi e nei tempi indicati da ciascun corso di studio.
Dunque, a vedere la realtà delle matricole degli ultimi anni, si continua a rimandare il problema delle “scompetenze” della lingua italiana fino all’università dove ci si organizza con corsi di recupero per mettere delle pezze a quanto lo studente italiano non ha saputo costruire e consolidare nel percorso di 13 anni di scuola!
Siamo, pertanto, di fronte a una sorta di mistero trinitario, le cui parti sono rappresentate dall’Invalsi, dalle università e dalla scuola, con ruoli e funzioni diverse e proprie e specifiche.
Che cosa si potrebbe fare, concretamente, per affrontare l’emergenza delle “scompetenze” in italiano? Ovviamente mi rendo conto che la dimensione linguistica è un fenomeno complesso e non si può ridurre meramente alla sfera didattico-pedagogica, ma da qualche parte si dovrà pure incominciare.
Occorrerebbe, prima di tutto, fare sistema, che in Italia è cosa ardua, spesso impossibile. Chi sta in mezzo alla triade sopra menzionata è il docente, che deve riappropriarsi della sua identità di educatore e professionista, sostenuto in ciò da una seria preparazione iniziale seguita da una trasparente e meritocratica procedura di selezione e reclutamento, con uno stretto contatto con la realtà della scuola.
T. Pedrizzi ha scritto un interessante articolo a commento della recente nomina di Ricci e sul ruolo dell’Invalsi; tuttavia, a mio parere, non ha puntualizzato pienamente quanto sia essenziale l’apporto dei docenti, il cui lavoro è nascosto dietro alle percentuali Invalsi. In questi casi, l’accento cade puntualmente – come nel caso dell’articolo citato – sulla scuola come fucina imprenditoriale, cavalcando le tesi “aziendalistiche”, cui spesso il mondo della dirigenza scolastica punta e sostiene. Tuttavia nella realtà di tutti i giorni la scuola è de facto ma non de iure un’agenzia educativa in cui si danno gli strumenti e si creano occasioni per la formazione del cittadino di domani.
Perciò l’Invalsi può certamente – come sta facendo – dispiegare la sua efficiente macchina di rilevazione per valutare le competenze delle alunne e degli alunni italiani, informandoci, con dati scientifici, che – banalizzando un po’ – più si va avanti più diventano asini; ma poi?
Certo, Ricci, all’inizio del suo mandato, non può offrire una soluzione definitiva, pur venendo dal mondo accademico e non dal mondo bancario, come i precedenti presidenti dell’istituto. Egli potrà forse interloquire con i suoi colleghi accademici, per sollecitare, sindacati permettendo, un percorso stabile e serio di formazione iniziale dei docenti. Ma il mondo politico presterà il dovuto ascolto? Ad oggi, non sembra che questo stia ancora avvenendo.
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