Quando, in un futuro che si spera prossimo, nelle facoltà di scienze dell’educazione ci si rassegnerà all’esistenza ed al successo delle prove standardizzate esterne e forse verrà prodotto un paper – una volta tanto utile – sulla storia dell’Invalsi, un capitolo dovrà essere dedicato alle location delle presentazioni annuali del Rapporto.



Dopo una lunga peregrinazione, nei primi anni, fra istituti romani, allo scopo presumibile di mostrare vicinanza e non distacco dalla realtà delle scuole e dopo il successivo implicito riconoscimento ufficiale del Miur con l’accoglienza nei suoi saloni di rappresentanza, il 2019 ha segnato una svolta, con la presentazione alla Camera dei deputati. Fatto particolarmente significativo, poiché proprio da qui nell’autunno scorso è partito l’attacco dei rappresentanti grillini mirante a ridimensionare l’Invalsi accorpandolo e subordinandolo al ministero e la decisione di rendere solo opzionali le prove del V anno della scuola superiore che stavano per essere realizzate per la prima volta. 



Un decisione che però è tornata sui promotori come un boomerang, vista l’adesione plebiscitaria superiore al 90% dei giovani. In proposito il ministro Bussetti ha addotto una giustificazione sconcertante: l’opportunità di lasciare la valutazione degli studenti nelle mani degli insegnanti. Sconcertante poiché a questo fine era assolutamente sufficiente togliere il punteggio delle prove da quello complessivo degli esami; peraltro la comparazione che qui verrà fatta – a dati noti – fra i punteggi regionali della maturità e quelli delle prove Invalsi probabilmente dimostrerà che non si tratterebbe poi di una così grande iattura.



Il ministro ha poi a lungo enumerato gli investimenti che il governo ha effettuato al fine di colmare lo iato fra le aree del paese. Film già visto nei passati decenni, come ha ricordato nel suo lucido intervento la capo dipartimento Carmela Palumbo, che ha segnalato la loro apparente attuale inefficacia ed anticipato un coordinamento nelle quattro Regioni più problematiche – Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna – fra i diversi enti centrali e territoriali gestori dei tesoretti, al fine di cercar di cavarne una qualche utilità. C’è da dire che però, senza valutazioni e sistemi di convenienze, il rischio che il tutto continui a costituire semplicemente una modalità di erogazione di stipendio aggiuntivo è alto: i cultori della materia ricordano il caso delle aree a rischio in cui la convenienza economica a non uscirne impediva reali miglioramenti.

Ma andiamo a Roberto Ricci e ai risultati. Sostanzialmente il loro quadro completato oramai fino alla V conferma quanto fin qui negli anni acquisito e consolidato, con alcune importanti aggiunte e precisazioni.

L’Italia è divisa in due parti: quella dalle Marche (o dall’Appennino tosco-emiliano) in su, secondo la divertente definizione di Roberto Ricci, e quella dalle Marche in giù. A sua volta il Sud non è tutto uguale: spiccano negativamente, al solito, Sardegna, Sicilia, Campania e Calabria.

Fin qui ha spopolato la teoria per cui la primaria è tutta rose e fiori ed il disastro inizia alla media, buco nero eccetera eccetera. In realtà Ricci ci dice che le differenze cominciano anche alla primaria e l’accelerazione delle differenze della media è più una messa in evidenza di fattori da sempre presenti che un risultato esclusivo di questo segmento scolastico. Varrà la pena approfondire la matematica: ricordiamo nelle edizioni precedenti i suoi risultati mediocri già nella V primaria ed il miglioramento relativo all’ultimo anno della scuola media. Anche le visite nelle scuole del Servizio nazionale di valutazione hanno insinuato qualche dubbio su questa sopravvalutazione della primaria, forse anche dovuta alla maggiore disponibilità agli stimoli del suo personale: un concetto della valutazione molto soft, una pedagogia molto attenta ai livelli problematici e molto meno al miglioramento, una formazione matematica degli insegnanti stessi non soddisfacente anche per scarse vocazioni in proposito.

Poiché oramai i livelli sono stati definiti con chiarezza anche nei loro specifici contenuti in relazione al contenuto normato dei traguardi e con essi anche il livello di accettabilità, è possibile anche mettere a fuoco il fatto che in alcune materie (soprattutto la matematica) ed in alcune aree il 60% degli allievi si trova sotto il livello di accettabilità, il che significa che esce dalla superiore o dalla media con certificazioni formali che dichiarano che possiede delle conoscenze e conseguentemente delle capacità che in realtà non possiede. Esse presumibilmente si fermano ai livelli precedenti (rispettivamente V elementare o III media) ma la prova per sua natura non può identificare i reali livelli dei sottosoglia. Un compito che Ricci ha garantito essere presente nei progetti futuri di Invalsi.

Per quanto riguarda il passaggio fra la media e la superiore, un risultato interessante ci indica che la percentuale di studenti in grossa difficoltà a livello di terza media diminuisce in V superiore nelle scuole sopra le Marche mentre aumenta nelle scuole sotto le Marche. Un indicatore interessante dell’efficacia della scuola superiore. 

Sull’inglese invece i risultati non sono entusiasmanti in generale: sempre nello stesso passaggio la percentuale di studenti in difficoltà aumenta in modo consistente e gli studenti mediocri sono molti dappertutto. La conclusione ne è stata che qui sono chiari i limiti della didattica delle lingue in Italia.

La vicenda delle prove di V superiore si completerà in modo esemplare il 23 luglio, quando su apposita piattaforma gli studenti, e non solo le famiglie, potranno scaricare la certificazione dei loro risultati. Un riconoscimento che è stato più volte sottolineato alla maturità, dimostrato con il 96% di adesione volontaria. Molto maggiore, a quanto pare, di quella dei loro rappresentanti.

Interventi qualificati non sono poi questa volta mancati: la presidente Ajello ha voluto ribadire che la valutazione esterna è complementare e non antitetica a quella degli insegnanti, con un invito molto centrato agli “intellettuali” (le virgolette sono di chi scrive) a non fomentare opposizioni poco documentate ed oramai stucchevoli. Ha poi anche approfondito la realtà e la funzione dei livelli che hanno una funzione di operazionalizzazione dei traguardi definiti legislativamente e perciò sono uno dei pochi esempi concreti che gli insegnanti hanno per orientare la loro didattica.

Una benedizione internazionale utile in tempi di attacchi interni che definire arretrati è un eufemismo è venuta dall’intervento di Andreas Schleicher, direttore Area Education e Skills di Ocse che ha riconosciuto, come già fatto nel febbraio scorso con un articolo di diffusione internazionale, la validità tecnica, la completezza e l’interesse scientifico di quello che ormai si può definire il sistema Invalsi, un modello non molto comune anche a livello internazionale.

Il sistema Invalsi infatti oramai è a punto e se gli inizi hanno dovuto molto alle influenze internazionali (Pisa, Timss) gli sviluppi successivi e la conclusione di quello che è stato un percorso difficile e tortuoso sono stati essenzialmente merito di forze autoctone italiane, sia per quanto riguarda le presidenze che i tecnici   ricercatori. La politica ha giocato un ruolo molto variabile; gli entusiasti sono stati sempre pochi per ragioni di consenso elettorale da parte della massa (non tutti) degli insegnanti, ma anche i più contrari non sono sostanzialmente riusciti se non a proporre elementi di disturbo. Rimane un mistero sul perché in generale la sinistra, intesa in senso lato, sia stata sostanzialmente una forza di opposizione e di disturbo, mirante soprattutto a sottovalutare se non a censurare il problema Sud; i dati dimostrano che ci sono al Sud forti problemi di equità e di polarizzazione sociale, con privilegi per i ceti privilegiati ed abbandono della “plebe”. Un bel controllo sulla formazione delle classi per esempio non sarebbe fuori luogo, perché dai dati balza in evidenza la presenza di classi di serie A e classi di serie B. 

Un intervento del pubblico da parte di un giovane accademico – chiaramente non un supporter sfegatato – ha riconosciuto all’Invalsi solidità istituzionale a fronte di un contesto fragile e gli ha chiesto anche un maggiore sfondo pedagogico. L’impressione è che si sia chiusa la fase costituente, che il prestigio sia acquisito e che forse è il caso di aprire una fase di analisi e sfruttamento adeguato della mole di dati raccolti. L’accademia italiana si sta svegliando molto lentamente e solo parzialmente dal sonno dogmatico in cui è immersa; giustamente la presidente ha osservato che se si rassegnasse ad inserire dei crediti che garantiscano la conoscenza del sistema di valutazione nella formazione degli insegnanti, i ricercatori Invalsi non dovrebbero battere ventre a terra il paese per garantire le minime conoscenze in proposito nelle scuole.

Insomma, se l’Invalsi scenderà più decisamente in campo nell’analisi dei suoi dati, non ne verrà danno per la conoscenza della nostra reale situazione e perciò anche per il tentativo di affrontarne i problemi.