A un mese di distanza dal 12 settembre, giorno in cui è stato rilasciato il rapporto OCSE Education at a Glance 2023, la rassegna più autorevole sul mondo dell’istruzione internazionale, constatato che per l’ennesima volta dopo i classici articoli di rito dei 2-3 giorni successivi tutto ne tace, cosa possiamo ricavarne sul nostro Paese?
In sintesi: poche iscrizioni ai nidi, ma asili in linea con Paesi simili al nostro, minore investimento Pil in istruzione con uno squilibrio verso il basso e sotto-finanziamento nel livello terziario, elevato numero di docenti per alunno, bassi salari degli insegnanti a tutti i livelli. Niente di nuovo sul fronte occidentale.
Vale la pena invece soffermarsi sul focus di quest’anno: il Vocational Education and Training (VET). Perché questo focus? Al di là della giusta scelta di OCSE di mettere a fuoco ogni anno un diverso argomento, c’è una ragione più sostanziale.
In Italia molti lamentano il ruolo marginale della formazione per il lavoro. Ma nel ricco Occidente ed anche in Paesi non ricchi le cose non vanno molto diversamente. Fanno eccezione i Paesi di cultura ed influenza germanica dell’Europa Centrale (il Beruf protestante?) ed anche in parte quelli che nel Novecento sono stati nell’orbita sovietica. Nella cultura di impianto marxista, infatti, la scienza e la tecnica hanno avuto grande importanza, perché l’emancipazione del proletariato e lo sviluppo delle forze produttive della società erano, almeno a livello teorico, un must. Che come tale ha improntato l’educazione, chiamata non a caso politecnica.
Altrove invece le specializzazioni tecnico-scientifiche mancano. Da una parte mancano i giovani autoctoni per ragioni demografiche e la piena integrazione dei giovani immigrati, a livelli di formazione almeno medi, non è cosa sempre agevole per molte ragioni. Dall’altra i giovani che ci sono, a causa del miglioramento del tenore di vita delle famiglie, aspirano a futuri professionali più prestigiosi, meno impegnativi e (ma questo spesso è secondario, oltre che dubitabile) più remunerativi. Non è un problema che riguarda solo l’Italia, dunque, ma nel nostro Paese si manifesta con grande virulenza, tanto che la parte di Europa che all’ultima rilevazione in proposito aveva la percentuale più alta di NEET (27%) era la Sicilia.
Ciò avviene anche nei Paesi che una volta si sarebbero definiti in via di sviluppo, soprattutto africani. Grandi investimenti di Banca Mondiale & co. per l’alfabetizzazione; obiettivo raggiunto a livello di iscrizioni, ma non di risultati effettivi, grande sviluppo della formazione generalista (noi diremmo i licei, preferibilmente “leggeri”) a favore di ceti medi sostanzialmente parassitari, che non incidono però sullo sviluppo economico e pertanto anche sul miglioramento sociale. Qualche ricerca ha fatto sensatamente notare che la formazione per il lavoro richiede anche attrezzature più complicate e costose di una lavagna.
Dunque siamo in buona compagnia? In realtà, nel giudicare la realtà italiana di iscrizione ai VET migliore di quella di molti altri Paesi occidentali, pesa il fatto che, correttamente peraltro, vi sono stati inseriti anche gli istituti tecnici (25% sul 35% totale VET). Una peculiarità italiana che finisce per essere né carne né pesce. Tanto è vero che moltissimi suoi diplomati si iscrivono poi alle università e si sa che quelle italiane poco hanno a che fare con la formazione per il lavoro.
Qui allora conviene riflettere su due punti fondamentali.
Il primo è che sia gli IT che gli IP (e spesso anche i CFP, almeno come aspirazione) risentono di una impostazione generalista ed astratta, tale da respingere lo zoccolo duro – ovunque nel mondo diffuso e tetragono, fatto soprattutto di maschi – che, come venti anni di risultati PISA dimostrano, non è sensibile a questa impostazione. E pertanto va ad ingrossare il flusso della cosiddetta dispersione esplicita (bocciati e/o abbandonanti). Il problema in Italia è che questa impostazione è figlia del progressismo, della ricerca di giustizia sociale e di equità che ha combattuto contro la negazione al popolo della cultura umanistica alta e “critica”, ipotizzata come emancipante di per sé a livello intellettuale, sociale e civico. Perciò l’ultima riforma degli istituti professionali e tecnici ha aumentato la cultura generale sia umanistica che scientifica, ma quasi cancellato i laboratori. Ottime intenzioni, ma quando si vede che qualcosa proprio non funziona non è il caso di tornare indietro?
Il secondo è che manca da noi una formazione terziaria orientata al lavoro. La differenza nei numeri degli iscritti e diplomati della formazione post-secondaria fra Italia e gli altri Paesi comparabili, in quelli che per semplicità chiamiamo con la denominazione italiana di ITS, sta tutta qui. Di universitari ne abbiamo anche troppi e le università se li tengono ben stretti, avendo inventato per farlo anche le lauree professionalizzanti, che hanno poi sempre sabotato. Invece i corsi bi e triennali orientati all’operatività che in Francia e Germania sono ben solidi e prestigiosi, da noi stentano a crescere numericamente.
Ad un certo punto, negli anni 90, quando vi si mise mano, sembrò ci fosse il rischio che – sulla base di una legge del 1939 – potessero diventare una sorta di prolungamento degli istituti tecnici ove collocare gli insegnanti in soprannumero. Si ideò dunque, come spesso succede in Italia, una struttura eccellente. Nessuna stabilità istituzionale, fondazioni o altre denominazioni a termine con composizioni eccellenti comprendenti aziende, scuole, istituzioni varie, eccetera, ed anche, bisogna dirlo, buoni finanziamenti (cosa che nel nostro Paese non si dice mai). Poiché il meglio è nemico del bene, sta di fatto che i numeri sono sì cresciuti, ma dopo anni e molto stentatamente: al 2022 146 corsi con 25mila iscritti (Fonte Indire).
Inoltre, esaminare la struttura di un sistema educativo e puntare al suo miglioramento solo mettendo a fuoco l’offerta (le strutture, gli operatori, le decisioni politico-amministrative, insomma) non basta, anzi forse è secondario. Quello che è decisivo è orientare le profonde tendenze della domanda. Se le famiglie vedono la formazione per il lavoro come una scelta di serie B per svariate ragioni, il perfezionamento dell’offerta servirà a poco. Ci vuole un messaggio forte, supportato dalle evidenze, condiviso dalle istituzioni e possibilmente anche dal mondo della cultura.
Orientare all’operatività e semplificare i percorsi secondari di formazione per il lavoro, costruire un sistema terziario solido, diffuso e ben valorizzato sembrano essere strade obbligate. Diversamente continueremo a lamentare la dispersione esplicita, a registrare impotenti quella implicita (diplomi generalisti dentro ai quali c’è ben poco) ed a contare, per mantenere quel poco di struttura solidamente produttiva che ci è rimasta, sulla tanto deprecata immigrazione. Una immigrazione razionale che non toglie in realtà a noi autoctoni lavori di cui non vogliamo sapere, ma sulla quale dobbiamo contare per coprire tante posizioni lavorative indispensabili.
La Brexit è nata con la demonizzazione dell’idraulico polacco; non abbiamo ancora visto bene come andrà a finire. Ma stiamo vedendo cosa sta succedendo in quel Paese.
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