Si è celebrata ieri la giornata contro bullismo e cyberbullismo, un fenomeno in espansione, che colpisce soprattutto i ragazzi dai 12 ai 16 anni. E su un quotidiano locale del Veneto nei giorni scorsi è stato dato molto rilievo e spazio a una inchiesta sulla violenza tra minori. Il tema, dunque, richiede davvero tutta la nostra attenzione, dato che è prima di tutto un problema educativo.
Lascio volutamente da parte le analisi sul fenomeno, affermando solo che le sue dimensioni e i suoi effetti sui nostri giovani ci lasciano tutti estremamente addolorati, perché voglio porre una domanda che a me sembra urgente: che compito abbiamo noi adulti, e noi adulti che operiamo nella scuola in particolare, davanti a ciò che sta accadendo tra i nostri giovani?.
È una domanda che vorrei rivolgere a tutti coloro (genitori, docenti, educatori, allenatori, istruttori eccetera) che sono in rapporto con bambini, ragazzi e giovani, perché ci si possa sostenere nel trovare modalità effettive di aiuto a loro. Chiaramente è prima di tutto una domanda che interpella me stesso e i miei colleghi delle scuole “Romano Bruni” e quindi vorrei offrire alcune nostre risposte che nascono dall’esperienza che viviamo.
Il primo grande compito che abbiamo è riconoscere, per noi ogni giorno a scuola, il valore irriducibile dei nostri giovani, di ognuno di loro. Il grande scrittore Albert Camus nel suo libro autobiografico Il primo uomo racconta la sua esperienza scolastica con queste parole: “Nella classe del professor Bernard, per la prima volta in vita loro, i ragazzi sentivano di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione: li si giudicava degni di scoprire il mondo”.
Ecco, il giudicarli degni di scoprire il mondo, degni (non solo capaci), mi pare sia la prima grande responsabilità, il primo vero compito, che noi docenti abbiamo a scuola. Ognuno di loro, qualsiasi siano le condizioni e situazioni, è definito, a prescindere, da questa ultima infinita dignità, e il suo continuo riconoscimento da parte dell’adulto è il grande invito a uno sguardo di simpatia e apertura sugli altri e sulla realtà.
Il secondo compito di noi adulti nella scuola è essere consapevoli che solo la nostra presenza vera è il primo fattore educativo. Come scrive Pasolini: “Se qualcuno ti avesse educato, non potrebbe averlo fatto che con il suo essere, non con il suo parlare”.
I giovani ci guardano e intuiscono come affrontiamo la vita, che cosa ci guida nel rapporto con gli altri e la realtà. Se per noi, per la nostra vita, la performance è tutto, possiamo mettere regole, paletti e limiti, ma ciò che ai giovani interessa veramente è ciò in cui crediamo e speriamo, perché li educhiamo comunicando noi stessi, il nostro rapporto con le discipline, la lezione in classe, la valutazione, la realtà tutta.
La terza responsabilità è ciò che Papa Francesco richiama quando afferma che “per educare ci vuole un villaggio”. Cioè una trama, una comunità fatta di rapporti vivi. Prima di tutto a scuola tra noi docenti, dove collaborazione, stima, sostegno e anche correzione reciproca sia quotidianamente visibile e sperimentabile dagli studenti. La possibilità per i giovani di vivere in un ambito di rapporti determinati dal desiderio di apertura e affermazione del valore dell’altro comunica loro la convenienza umana di una vita così. E la stessa dinamica può ben accadere tra docenti e famiglie quando diventa chiaro e comune lo scopo educativo.
Allora è ben possibile che docenti e genitori operino con fiducia insieme e di questo il giovane ne fa esperienza e la sua libertà ne viene interpellata.
Che i nostri ragazzi e ragazze soffrano per un clima di violenza fra di loro mette in gioco prima di tutto noi adulti. La scuola è ambito privilegiato per accompagnare un reale ed effettivo cammino verso la consapevolezza del valore della persona e una convivenza veramente umana.