La riforma scolastica del 1923 – la riforma Gentile – non ebbe vita facile. Già nel 1925 il ministro Fedele vi apportò alcuni “ritocchi”, alla fine degli anni 20 venne potenziato l’ambito tecnico-professionale che il ministro filosofo aveva lasciato in disparte e fu creata la scuola di avviamento al lavoro. Nel 1939 la Carta della Scuola disegnò quella che avrebbe dovuto essere la scuola fascista, con una netta presa di distanza dal provvedimento del 1923, progetto tuttavia restato sulla carta in seguito allo scoppio della guerra.
Ben diversamente da quanto accadde al regime che aveva posto le condizioni per la sua realizzazione, la scuola disegnata nel 1923 non fu trascinata nella disfatta del fascismo. Gli uomini che ricostruirono la scuola della Repubblica – sia quelli di tendenza moderata, sia gli esponenti di sinistra, gli uni e gli altri cresciuti tra filosofia, letteratura e lingue classiche – ne richiamarono e ribadirono con insistenza l’autorevolezza e ne confermarono la validità. La sua influenza resistette almeno fino agli anni 60, quando la diffusa scolarizzazione rese impraticabile una formula educativa progettata per una scuola altamente selettiva, finalizzata a coltivare soltanto gli alunni migliori destinati a proseguire negli studi.
La scuola di oggi centrata sul principio dell’inclusione – se pur corretta dal riconoscimento che va dato al merito – è incomparabilmente distante da quella gentiliana, così come la nostra società non è minimamente paragonabile con quella di un secolo orsono. Basta pensare a come oggi, a differenza di cent’anni fa, la scuola ha temibili concorrenti nei media, nell’impiego delle tecnologie, nei social e nella circolazione a vasto raggio delle informazioni e come – anche nell’opinione pubblica – essa non goda più della stima del passato e soprattutto non sia più quell’automatico ascensore sociale per salire sul quale meritava studiare. Alcuni sono addirittura convinti che la scuola non serva e sia più efficace autoformarsi a contatto con le immense risorse (e i mille tranelli) forniti dal web.
Sono trascorsi appena cento anni, ma sembra che sia passata un’era geologica tali e tanti sono stati i cambiamenti che nel frattempo hanno modificato gli stili di vita.
Eppure ci sono almeno due aspetti della riforma Gentile su cui ancora merita svolgere qualche riflessione. Il primo riguarda la centralità assegnata alla scuola e alla cultura contemporanea e a quella trasmessa dalla tradizione che essa ha (o dovrebbe avere) il compito di promuovere nella vita sociale; il secondo l’attenzione posta alla formazione della coscienza personale (quello che, detto con il linguaggio delle soft skills, è il character).
Alla scuola il ministro filosofo affidava il compito non solo di assicurare agli allievi un’istruzione all’altezza dei bisogni della vita adulta, ma anche una funzione civile: alla validità e vitalità della scuola corrispondevano, secondo Gentile, una società consapevole del suo destino e cittadini all’altezza delle loro responsabilità. La mediocre o pessima qualità della scuola era anche l’antefatto della disgregazione sociale. Una società senza una buona scuola era in balia di sé stessa e di tutte gli allettamenti utilitaristici che le stavano intorno, una società, in una parola, senza identità. Nel caso di Gentile l’identità coincideva con il senso sacro della Patria e cioè – detto con le parole del nostro tempo – con la consapevolezza di far parte di una comunità.
In questa convinzione c’era più di un auspicio, c’era anche una buona dose di utopia, ma – con tutti i limiti che possiamo rimproverarle, soprattutto quello di essere una scuola distinta per ceti – è possibile trovarvi anche un forte richiamo al dovere della politica in primis, ma anche della società civile nel suo complesso, di provvedere ad assicurare alle giovani generazioni programmi di studio ben organizzati, insegnanti preparati, strutture adeguate.
È purtroppo quasi scontato constatare che oggi siamo ben lontani da un ceto politico che davvero ha a cuore la dignità della scuola e spesso, anzi, la concepisce soltanto in funzione dell’assorbimento della disoccupazione intellettuale o, in altra direzione, in forme puramente custodiali. Da più parti si segnalano i rischi che essa perda irreversibilmente la sua tradizionale centralità nella vita sociale, ridotta – come già sta accadendo in diversi casi – ad essere utile soltanto per gli spazi di socializzazione orizzontale (con i pari) e verticale (con adulti diversi dai genitori) che assicura. Qualche anno fa l’ex ministro dell’Istruzione, Tullio De Mauro, ha ripreso il concetto con una concisa e anche drammatica espressione: “Una società non può permettersi il lusso di due generazioni di analfabeti”.
La seconda riflessione che suggerisce la riforma di Gentile è la centralità attribuita alla formazione della coscienza personale. L’educazione, ieri come oggi, è un evento che si compie mediante quella che il ministro filosofo definiva “l’incontro di anime”. Non è un prodotto quantificabile e pre determinabile, è il senso dell’umano che trasmigra da chi ha più storie da narrare ed esperienze da proporre a chi sta crescendo, cercando la propria via. Se viene meno il senso “umano”, l’educazione – posto che si possa ancora così definire – si riduce a pura esperienza cognitiva e operativa il cui orizzonte di azione è finalizzato al cambiamento senza bisogno di guardare “dentro” e “oltre”.
Prevalgono le procedure formalizzate (cognitive, sociali, comportamentali) rispetto ai processi basati sull’esercizio della libertà. È quanto sta accadendo da qualche decennio – dietro la spinta di ragioni economiche e produttive – in larga parte della cultura pedagogica contemporanea, debitrice della cultura anglosassone di matrice comportamentista e pragmatista.
Se si perde di vista il “senso” del nostro agire, lo scopo si riduce a garantire l’infinita possibilità di plasmabilità/trasformazione dell’uomo secondo le esigenze via via emergenti.
(2 – fine)
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