La scuola è iniziata da circa un mese e già giungono le solite notizie di lavoro alacre e proficuo dalla maggior parte dei plessi, ma anche di difficoltà, fatica, frustrazione da parte degli adulti. Fioccano ormai siti e profili di insegnanti-comici (“Filippo Caccamo” o “Maestrainbluejeans”, per citarne un paio a beneficio di chi volesse farsi due risate) di personaggi divertentissimi che motteggiano le situazioni tipiche della scuola, al limite tra ridicolo e tragico: alcuni di essi sono così famosi da essere chiamati a tournée teatrali, tanto i docenti si riconoscono nelle situazioni assurde messe in video. La satira si scatena sempre in periodi di tirannide: in campo educativo la tirannide oggi è un blocco, una vera e propria impasse rispetto al problema educativo.



Da una parte c’è un numero sempre maggiore di ragazzi con disagio sociale o psicologico (o entrambi) e ogni medio assistente sociale, educatore o insegnante può attestarlo: la scuola stessa sta moltiplicando le certificazioni di bisogni educativi speciali (BES), disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) e una ridda di diagnosi, sigle e difficoltà che giungono, talvolta, ad essere la maggioranza nelle classi più a rischio. Dall’altra si trovano adulti sempre più pietrificati: aumentano i protocolli, i patti educativi, i cavilli disciplinari che surfano tra controllo delle classi e necessità dell’inclusione, ma nulla pare riuscire a fronteggiare il colosso del disagio giovanile.



Si ricorre spessissimo da sempre più parti agli esperti, possibilmente rinvenuti nelle schiere degli psicologi o degli psicanalisti. Non c’è servizio di telegiornale su un disastro compiuto da un ragazzo che non termini col parere dell’esperto, come tutti sappiamo. I quali immancabilmente rintracciano le colpe di quello che è successo nella famiglia o negli insegnanti. I più famosi di questi esperti sono ormai delle vere e proprie star, che riempiono i teatri con le loro conferenze, scrivono libri best-seller e fanno impennare gli ascolti delle trasmissioni dove intervengono. I nomi più noti li conosciamo tutti: Crepet, Recalcati, Galimberti…



Amatissimi dal pubblico e dai docenti, usando carota e bastone, sono bravissimi a spiegare quali sono i problemi: i genitori sono infantili, ai figli si comprano troppi giocattoli e non si dicono dei no, si devono dare le regole ma non si devono dare le regole. Insomma, alla fine non si va mai bene, la società di oggi ha perduto i criteri educativi (che non si sa quando avrebbe avuto), gli adulti sono sempre inadeguati, sempre incapaci, sempre sbagliati. E amen. Questi esperti sono ormai così seguiti che pontificano su tutto: quello scrive un libro su Dio, quell’altro racconta la sua carriera scolastica o sentenziano come si deve stare in classe.

Prima o poi anche questa bolla culturale passerà, soprattutto perché l’unico risultato è far sorgere il senso di colpa, in genere non su sé stessi: chi li ascolta pensa solitamente che abbiano ragione ma che a sbagliare siano gli altri. Ma il problema è che, se siamo in cerca di esperti, occorre trovarli tra quelli veri. Esperto è chi ha esperienza: e chissà perché a nessuno viene mai da invitare a fare conferenze a un genitore normale o a un povero insegnante che tutti i giorni entra in classe a sporcarsi le mani coi suoi studenti.

Ci viene in soccorso allora un libro, che proprio in questo modo è fatto: si tratta Tre mesi di vacanza (e il posto fisso) e l’ha scritto un normalissimo insegnante, Nicola Campagnoli, prefazione di Andrea Mencarelli (Affinità elettive, 2023). Il titolo ironico non tragga in inganno: Campagnoli parla dall’interno della sua categoria di docente che introduce col luogo comune popolare che nel titolo, appunto, riporta ciò che pensa gran parte delle persone sugli insegnanti. Soprattutto è un libro che non dà né analisi né riflessioni. Invece racconta: della scuola, della sua vita quotidiana, dei gioielli e delle ferite che sono i ragazzi. Per Campagnoli il lavoro che si sceglie è come una casa a cui sei destinato: “Il destino ti coglie e ti fa suo, che tu lo voglia o no. Per me fu evidente, dopo appena qualche secondo, che nessuno mi avrebbe più tirato fuori da quella trincea, da quel buco del mondo, da quell’arena in cui occhi assonnati, infiammati, tristi, famelici, ebeti, acuti o menefreghisti, mi issavano come fossi un forziere da cui si doveva estrarre chissà quali tesori. Non è questione di bravura, ben inteso; la bravura non c’entra niente. È il destino, e il destino è un luogo che – ti piaccia o no (perché è chiaro che può piacere o meno il proprio destino) – lo senti casa tua”.

L’insegnante dunque sa “che il destino di un ragazzo non è nelle mie mani e che io non sono un salvatore”, e che “chi non accetta di educare e vuole soltanto istruire, è fuori dalla possibilità di far crescere una scuola adatta per questo nostro tempo. È finita l’epoca della scuola che crea l’uomo competitivo, egoista, che sa farsi spazio sugli altri. È finito quel tempo da tanto, eppure la scuola è rimasta quella lì: la scuola che seleziona. Il mondo chiede altro”.

Qual è la soluzione, allora? Nessuna, se non continuare a lavorare. Ci sono i ragazzi che, pur essendo brillanti, smettono di andare a scuola e il prof non li convince neppure se va a cercarli a casa; c’è la ragazza che vuole essere trattata come un maschio, questione dilagante, e non esiste protocollo ufficiale che possa evitare di starle davanti; c’è quella che dice: “Io ho paura di tutto” e il collega che risponde: “Una che dice così – ‘Io ho paura di tutto’ – ti si consegna. È qualcosa di imponente che accade”; e c’è la ribelle ostinata che dopo le minacce di note, sospensioni e cacciate da scuola del prof, gli dà ragione ma conclude: “Ma lei non potrà mai fare in modo che io non esista”.

Il destino dell’educatore dunque non sta nel trovare soluzioni, nel sentirsi adeguato o atterrito, ma nello stare di fronte a chi testardamente continua ad esistere. Mi permetto dunque una piccola pubblicità personale: incontreremo Nicola Campagnoli e i suoi racconti ad un piccolo festival artistico, il “DiVento”, previsto nel fine settimana a Tolentino (Macerata). Il festival si intitola significativamente Gli invisibili e solo in apparenza paradossalmente i ragazzi saranno un esempio rappresentativo della categoria evocata nel titolo.

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