Il ministero dell’Istruzione ha scritto a tutti i dirigenti scolastici – gli unici che sono obbligati a lavorare in scuole praticamente vuote – per raccogliere informazioni “sulla didattica a distanza”.

In concreto il ministero cerca in questo modo di avere in tempi brevi un quadro realistico di come si sono attrezzate le istituzioni scolastiche per far fronte all’emergenza determinata dalla diffusione del virus.



Allo scopo è stato distribuito un questionario – da compilare entro il 18 marzo – con l’obiettivo di quantificare in che misura è stata attivata qualche forma di didattica a distanza, quanti sono stati gli studenti coinvolti, l’effettiva dotazione informatica delle scuole e dei ragazzi “connessi” da casa, il numero effettivo di docenti con competenze informatiche.



Il questionario, dopo alcune domande di carattere generale, chiede esplicitamente quale tipo di piattaforma sia stata utilizzata. Se ne elencano 6: il software del registro elettronico, Google Suite for education, Office 365 Educational, Moodle, Edmodo, le tradizionali mail.

Sapremo quindi solo fra qualche settimana quali sono state le reali attività didattiche che, dopo la chiusura di tutte le scuole, sono proseguite da casa grazie all’utilizzo di nuove tecnologie.

L’impressione è che ciò sia accaduto effettivamente in pochissimi casi, e soprattutto che, dopo qualche onorevole tentativo e tanta buona volontà, le attività si siano via via fermate del tutto.



Non poteva essere altrimenti, visto l’enorme ritardo accumulato in questi anni dal nostro sistema formativo sul fronte dell’uso di nuove tecnologie. Senza contare il peso del divario tecnologico tra i territori più ricchi e quelli più poveri, tra famiglie di diverso livello di reddito e di cultura.

Questa vicenda è la dimostrazione concreta che non si può fare affidamento sulla semplicistica idea che ogni telefonino è di per sé un terminale su cui far viaggiare contenuti e organizzare attività complesse come la didattica.

L’altra questione che emerge è la permeabilità del sistema pubblico alla subdola pervasività dei prodotti privati offerti a titolo gratuito. È il caso delle Big Tech come Google e Microsoft che dispongono di prodotti civetta (come Google Suite) e che in assenza di una strategia pubblica stanno provando di conquistare mercato ed utenti.

Vale per la scuola la stessa obiezione che è stata sollevata per “Solidarietà Digitale”, il progetto promosso lo scorso 27 febbraio dal ministero dell’Innovazione.

La ministra Paola Pisano aveva con una certa enfasi presentato il progetto nel quadro dell’emergenza coronavirus parlando di “azioni per essere al fianco di cittadini ed imprese utilizzando soluzioni innovative”. Il progetto riguarda lo ”smart working”, contenuti culturali gratis come giornali e libri, e le piattaforme di e-learning, e parte sicuramente da buone intenzioni. Il punto è che il ministero promuove soluzioni offerte gratuitamente da soggetti privati nazionali, come il gruppo Gedi (la Repubblica, la Stampa ed altri), operatori di telecomunicazione, e le Big Tech. In particolare sono proprio le offerte gratuite di Amazon, Google e Microsoft a destare non pochi dubbi. Il punto è sempre lo stesso: esse hanno l’obiettivo di intercettare nuova domanda e impossessarsi di dati assai sensibili.

A questo punto occorre rivolgere a Pisano e Azzolina, le ministre dell’Innovazione e della Scuola, alcune domande.

La prima è se si sono rese conto che aprire alle grandi aziende globali le attività didattiche significa dare dati sensibili ad aziende che hanno in più occasioni dimostrato di averne fatto un uso disinvolto e comunque non rispettoso delle norme italiane sulla privacy e sulla tutela dei dati pubblici. Ma al di là di questo pur enorme problema, le nostre ministre sanno che il valore del dato è il dato stesso? Che sono i dati che alimentano gli algoritmi in grado di prevedere le scelte e soprattutto di condizionarle?

La seconda domanda, ovviamente collegata alla prima, riguarda la necessità di avere un soggetto italiano a controllo pubblico in grado di offrire alla pubblica amministrazione i servizi essenziali di conservazione dei dati sensibili, per gestirli in modo trasparente e soprattutto riservare al decisore pubblico la mole di elaborazioni che oggi invece sono utilizzati per rafforzare il business delle grandi aziende globali.

È una domanda che negli altri paesi europei si sono già posti. Francia e Germania si muovono ormai da mesi su questa strada e hanno proposto da tempo la nascita di un “campione europeo”, proposta fatta propria da parte dell’attuale Commissione europea.

Siamo nel pieno di una drammatica emergenza, ma abbiamo comunque il dovere di essere particolarmente attenti nel proteggere l’autonomia e l’integrità del nostro Paese e dei suoi cittadini.

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