L’ingresso del digitale nelle classi è un orizzonte ineludibile nella scuola, sia sul piano dell’organizzazione che su quello della didattica. I responsabili delle politiche pubbliche, gli insegnanti, i genitori e il resto della società civile concordano sul fatto che dalle tecnologie passi la possibilità per la scuola di “stare al passo” con la società, di giocare la sua attualità rispetto alle sfide formative che ne interrogano la sua impostazione tradizionale.



Si tratta solo di digitalizzare gli ambienti formativi o di ripensare la scuola ed attuare una digital trasformation?

Fin dal 2006 tutti i Paesi dell’Unione Europea hanno avviato azioni trasformative e accompagnare la transizione digitale della scuola italiana è anche l’obiettivo di alcune delle azioni del PNRR nelle quali in questi mesi sono impegnati dirigenti scolastici e docenti.



È tuttavia fuorviante parlare di “scuola digitale”, perché a tema è semplicemente la scuola o, se si vuole, la scuola “al tempo del digitale”. Essa continua, infatti, ad avere le sue consuete vocazioni, ovviamente da declinare oggi nel nuovo contesto: garantire la trasmissione culturale da una generazione all’altra; aiutare i ragazzi, attraverso il dialogo, a riconoscere i loro bisogni profondi; favorire l’orientamento e la scelta vocazionale nella vita e nella professione; fornire ai ragazzi le chiavi interpretative della società e della cultura in cui vivono.

Quali aspetti formativi, di aiuto all’espressività ed al protagonismo dei ragazzi, può approfondire, quali stimoli alla loro creatività e capacità di conoscere può dischiudere la diffusione degli strumenti digitali nelle scuole e in che modo? Quale atteggiamento gli insegnanti ed i dirigenti scolastici sono chiamati ad assumere per insegnamenti ed ambienti autenticamente “innovativi”?



I nuovi scenari tecnologici consentono, oggi, di offrire strumenti di sostegno alle nuove esigenze formative e di qualificare l’agire delle autonomie scolastiche nella direzione di una loro più efficace gestione organizzativa. Per immaginare risposte adeguate a sviluppare una scuola “al tempo del digitale” occorre tuttavia tenere conto di alcuni fattori.

I saperi crescono secondo una forte accelerazione, mentre il tempo scuola è rimasto lo stesso e non è ulteriormente aumentabile. Diventa perciò centrale il problema della essenzializzazione dei contenuti, ossia la definizione di un curricolo breve. Ciò comporta l’inizio di un superamento della rigidità delle articolazioni disciplinari e il passaggio ad un lavoro didattico più dinamico e modellizzante.

In questo processo il punto di riferimento deve rimanere lo studente: le competenze sono per la persona e non per il lavoro o per la scuola. Occorre, a questo proposito, guardarci dal rischio di learnification, ossia da una riduzione del ruolo dell’insegnante da educatore a “facilitatore dell’apprendimento” o di una concezione semplicemente trasmissiva del suo compito: due modelli che sono di impedimento allo sviluppo delle competenze degli alunni e di un’autentica personalizzazione degli apprendimenti. “Nella sua formulazione più essenziale il problema sta nel fatto che lo scopo dell’insegnamento, e dell’educazione in generale, non è mai che gli studenti imparino ‘semplicemente’, ma che imparino qualcosa, che lo imparino per ragioni particolari e che lo imparino da qualcuno” (Gert J.J. Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Cortina, 2022). Il ruolo di magister rimane fondamentale nella professione docente, anche se è difficile pensare di sostenerlo, in prospettiva, in assenza di veri strumenti di incentivazione per chi studia, si forma e si impegna a far crescere la propria professionalità. Un ruolo che, oggi, per essere efficace, va sostenuto nello sviluppare approcci multipli e diversificati alla didattica ed accompagnato nella sua formazione, promuovendo anche l’acquisizione – in tutti, non solo negli insegnanti “animatori digitali” – di “competenze 2.0”, cioè la predisposizione a ricorrere alle tecnologie in maniera inclusiva, conoscendole dal punto di vista strumentale, dei linguaggi e delle potenzialità espressive.

Corrispondere alle nuove esigenze formative implica, allora, creare ambienti di apprendimento adeguati, in grado di porre al centro non la tecnologia – presente nella misura in cui è necessaria – ma la pratica didattica, a favore dello sviluppo delle competenze, della collaborazione e della didattica attiva, per affrontare problemi e progetti secondo nuove logiche di gestione delle informazioni, improntate alla partecipazione ed alla condivisione dei saperi, all’acquisizione negli alunni di competenze digitali che li rendano capaci di utilizzare in maniera sicura, critica e responsabile le nuove tecnologie. Tecnologie determinanti, poi, anche nella rimozione degli ostacoli inerenti alle disabilità, ai bisogni educativi speciali, al superamento dei divari generati dalle differenze territoriali, di genere, sociali ed economiche.

Sulla questione dell’impiego dell’intelligenza artificiale (AI) nella didattica, infine, va chiarito che essa non è intelligenza o almeno lo è solo se si considera riduttivamente l’intelligenza unicamente come capacità di processare e rielaborare dati. L’utilizzo e lo sviluppo della AI favorisce, invece, anche negli studenti, un lavoro importante e interessante: riflettere su cosa sia veramente l’intelligenza, su cosa sia un lavoro di ricerca e studio, su cosa significhi imparare a porre domande per guadagnare il senso delle cose, non come un’informazione aggiuntiva tra le altre, ma come il logos di tutte le informazioni. Una sfida, dunque, innanzitutto sul piano epistemologico prima ancora che su quello etico.

 

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